Cara Roberta. Barbara Ladurner & Paolo Crazy Carnevale
29. Juni 2020
Cara Barbara!
Stamattina mentre me ne stavo comodamente sdraiato sulla poltrona del dentista, ho cominciato a pensare a cosa ti avrei scritto per rispondere alla tua ultima lettera. La mia mente si è messa a viaggiare, un po’ cercando di fare mente locale su quello che mi hai scritto tu e che avevo riletto proprio prima di uscire di casa, un po’ in cerca di una storia che potesse suggellare questo nostro epistolario tra sconosciuti che però ha forse finito col renderci un po’ meno sconosciuti.
Dici bene a proposito del fatto che noi umani siamo così, possiamo scegliere tra bene e male, talvolta finiamo anche col scegliere la via di mezzo, o semplicemente la via più comoda, che non deve essere per forza il male.
Umani, quindi imperfetti, d’altra parte se non fossimo imperfetti finiremmo con l’essere degli dei, i famosi dei di cui siamo occupati a più riprese nel nostro scambio di lettere. A te, Barbara, piacerebbe essere perfetta? A me sinceramente no, sai che noia sarebbe la vita… conosco gente che è convinta di esserlo e non hai idea di che futilità e noiosità siano queste persone! Se sbagli hai almeno la possibilità di ricrederti, di ammettere lo sbaglio, di scusarti anche… Ma quelli che fanno tutto sempre alla perfezione, quelli non avranno mai il piacere di poter ammettere un proprio errore. E poi non è per forza detto che gli errori debbano sempre essere negativi.
Non so se ci hai mai fatto caso, ma la vita spesso è come un viaggio in corriera, uno di quei lunghi, interminabili viaggi che sembra non vogliano mai terminare. Non parlo di quelle corriere tipo Gran Turismo che si vedono ogni tanto in autostrada o ferme davanti agli alberghi delle località turistiche della nostra regione. Parlo delle corriere che congiungono un luogo con un altro, quelle corriere con cui si viaggia non solo materialmente ma anche con la mente. Trovo che sia una prerogativa tipica delle corriere, i treni ad esempio sono già qualcosa di diverso.
Ma le corriere di linea sono perfette per far lavorare la fantasia. Sarà la mia propensione per la scrittura e per il creare storie, ma ho sempre tratto grande ispirazione dai viaggi in bus, un po’ guardando i paesaggi attraverso i quali le corriere sfrecciano, un po’ prendendo appunti mentalmente, ma anche con l’aiuto di carta e penna, un po’ costruendo storie sui compagni di viaggio sconosciuti che ci siedono accanto, davanti, dietro o nei sedili sull’altro lato del corridoio, e anche sull’autista naturalmente.
Come nella vita, anche sul bus ci troviamo a contatto con altre persone, persone che la vita ha messo sul nostro cammino, persone con cui possiamo trovarci bene, ma anche persone che non ci aggradano.
Per avvalorare questa mia teoria sul viaggio in corriera come parafrasi e metafora della vita, vorrei raccontarti di un lungo tragitto che ho percorso anni fa attraverso la Bassa California, durante un’estate particolarmente calda. Viaggiavamo a bordo di un bus della compagnia Tres Estrellas de Oro (le tre stelle erano la sicurezza, la comodità e la cortesia), partiti da Tijuana e diretti a Mulegé, all’incirca a metà di quella sottile penisola che si allunga oltre il confine tra Stati Uniti e Messico, bagnata su un lato occidentale dall’Oceano Pacifico e sull’altro dal Mare di Cortez. Il grande, incognito, imprevisto di quel viaggio si manifestò quasi subito, quando alla fermata di Ensenada uno dei due autisti ci comunicò che un uragano stava attraversando la penisola, ma non si sapeva esattamente in che punto e quindi prima o poi ci saremmo dovuti fermare in attesa che gli eventi volgessero a nostro favore. Questo ci portò ad una sosta di quasi dieci ore nella stazione delle corriere di Guerrero Negro (dove eravamo arrivati nel sonno prima dell’alba), al largo delle cui coste vanno a partorire le balene nei mesi invernali. A quei tempi non ero però ancora un appassionato di cetacei ed essendo estate ero comunque fuori stagione, ma credo che la cosa stia pur a significare qualcosa.
Per essere un semplice autobus che congiungeva l’estremo nord della penisola col suo estremo meridione bisogna dire che offriva un vasto e vario tipo di umanità. In particolare stringemmo amicizia con due tipici messicani espatriati nella zona di Los Angeles, così tipici che non riusciresti ad immaginarteli diversi da come erano, con la carnagione abbronzata ed i baffetti. Melchiòr e Tio Felipe (viaggiava col figlioletto e il nipotino che ogni volta che gli si rivolgeva lo chiamava così). Ma sul bus c’erano anche sei germanici, tre di Colonia e tre di Lipsia, che si guardavano in cagnesco.
I tre di Lipsia, ogni volta che qualcuno chiedeva loro da dove venissero si ostinavano a rispondere, in un inglese più scalcinato del mio, che provenivano dall’East Germany, finché ad un certo punto fu Tio Felipe a porre fine alla pantomima dicendo che a lui risultava che da un paio d’anni di Germania ce ne fosse una sola!
La corriera ripartì dopopranzo e dopo la siesta degli autisti, un bus proveniente dalla direzione opposta ci aveva messi al corrente che ora la strada era stata riaperta: per modo di dire… ci fecero togliere tutto dal bagagliaio perché ci sarebbero stati parecchi guadi lungo la strada e si sarebbe corso il rischio di bagnare zaini, borse e valigie. Ad ogni fermata i messicani e i tedeschi scendevano a comprare birra e tequila. Melchiòr raccontava storie: ci diceva che lui si chiamava come uno dei re Magi, che aveva due fratelli Balthasàr e Caspàr, e che, come se non bastasse sua moglie si chiamava Reina, che in spagnolo vuol dire Regina. Poco più avanti una coppia amoreggiava, in prima fila un signore dai capelli impomatati e con gli immancabili baffetti sudava impassibilmente senza scomporsi. Due dei ragazzi di Lipsia e Tio Felipe furono alla fine sopraffatti dai fumi dell’alcol, per la gioia dei due bambini che guardavano il baffuto congiunto ribaltato sul sedile intento a dormire russando rumorosamente.
Quando raggiungemmo la nostra destinazione, coincidente con quella dei tre di Colonia, era quasi notte un’altra volta e dovevamo ancora trovare un posto dove dormire, ma prima che il bus ripartisse ci fu ancora il tempo per una birra a bordo e poi abbracci e pacche sulle spalle con Melchiòr, i tre di Lipsia e Tio Felipe.
Mentre nello studio del dentista l’igienista terminava di farmi la pulizia dentale, ho provato a trasporre quel mio viaggio nella realtà attuale. Sarebbe stato un viaggio bruttissimo oggi: una corriera semivuota, i passeggeri mascherati e distanti, niente abbracci una volta arrivati a destinazione. E allora che felicità per quel mio viaggio, e visto che il viaggio è la vita, che felicità per questa mia vita, che non è sempre rose e fiori, che è fatta come tutte le vite anche di luci ed ombre. Ma è la mia vita e tanto basta.
Spero di non essermi dilungato troppo Barbara. A volte mi faccio prendere l mano, te l’ho già scritto, soprattutto quando si tratta di raccontare una storia. Vorrei dire ancora qualcosa sul nostro viaggio. Perché, diciamocelo, anche questo scambio di lettere è stato una specie di viaggio, a volte interiore, a volte no, un viaggio a base di lettere tra sconosciuti. A conti fatti direi anche un bel viaggio. E voglio concludere, tornando alla mia amata musica rock, con una canzone dei Kinks che s’intitola Strangers e il cui ritornello dice: estranei lungo la strada su cui ci troviamo, ma non siamo in due, siamo uno solo… è così nella vita, sulla corriera, negli scambi epistolari.
Buon proseguimento Barbara, aloha!
Paolo
Liebe Barbara!
Heute Morgen, während ich mich bequem im Zahnarztstuhl zurücklehnte, habe ich überlegt, was ich dir auf deinen letzten Brief antworten könnte. Mein Geist ging auf die Reise, zum einen, um sich in das hineinzuversetzen, was du mir geschrieben hast und was ich noch einmal durchgelesen hatte, bevor ich aus dem Haus ging, zum anderen auf der Suche nach einer Geschichte zur Besiegelung dieses unseres Briefwechsels zwischen Unbekannten, der aber vielleicht dazu geführt hat, dass wir einander nicht mehr ganz so unbekannt sind.
Du hast recht, wenn du sagst, dass wir Menschen so beschaffen sind, dass wir uns zwischen Gut und Böse entscheiden können, manchmal wählen wir auch den Mittelweg, oder einfach den bequemsten Weg, der nicht zwangsläufig das Böse sein muss.
Menschen, also unvollkommen, andererseits, wenn wir nicht unvollkommen wären, würden wir letztendlich Götter sein, die famosen Götter, mit denen wir uns mehrmals in unserem Briefaustausch befasst haben. Möchtest du, Barbara, gern perfekt sein? Ich, ehrlich gesagt, nicht, weißt du, wie langweilig das Leben wäre … ich kenne Leute, die überzeugt sind, es zu sein, und du glaubst nicht, wie belanglos und langweilig diese Personen sind! Wenn man Fehler macht, kann man sich wenigsten eines Besseren besinnen, den Fehler zugeben, auch sich entschuldigen… Doch diejenigen, die immer und überall perfekt sind, die werden nie das Vergnügen haben, einen eigenen Fehler eingestehen zu können. Und dann ist nicht zwangsläufig gesagt, dass Fehler immer etwas Negatives sein müssen.
Ich weiß nicht, ob du schon einmal daran gedacht hast, aber das Leben gleicht oft einer Fahrt im Überlandbus, einer dieser langen, nicht enden wollenden Fahrten. Ich meine nicht jene großen Reisebusse, die man ab und zu auf der Autobahn oder vor den Hotels der Ferienorte hier bei uns stehen sieht. Ich meine die Busse, die zwischen Ortschaften verkehren, jene Busse, mit denen nicht nur der Körper auf Reisen geht, sondern auch der Geist. Ich finde, das ist ein besonderer Vorzug der Busse, mit den Zügen zum Beispiel ist es schon etwas anderes.
Die Linienbusse aber sind perfekt, um die Fantasie auf Trab zu bringen. Es mag mit meinem Hang zum Schreiben und zum Geschichtenerfinden zu tun haben, doch Busreisen sind für mich stets eine große Inspiration, zum einen, wenn ich die Landschaften betrachte, durch die die Busse fahren, zum anderen, indem ich mir im Geist, aber auch mit Hilfe von Papier und Bleistift, Notizen mache, und auch indem ich mir Geschichten über die unbekannten Mitreisenden ausdenke, die neben, vor, hinter uns oder auf der anderen Seite des Ganges sitzen, und natürlich auch über den Fahrer.
Wie im Leben, begegnen wir auch im Bus anderen Menschen, Menschen, die das Leben unseren Weg kreuzen lässt, Menschen, mit denen wir uns gut verstehen können, aber auch Menschen, an denen wir keinen Gefallen finden.
Um diese meine Theorie von der Busreise als Paraphrase und Metapher des Lebens zu bekräftigen, möchte ich dir von einer langen Fahrt erzählen, die ich vor Jahren in einem besonders heißen Sommer durch Niederkalifornien unternommen habe. Wir reisten an Bord eines Busses des Unternehmens Tres Estrellas de Oro (die drei Sterne standen für Sicherheit, Komfort und Freundlichkeit), mit Start in Tijuana und Ziel in Mulegé, etwa in der Mitte jener schmalen Halbinsel, die sich über die Grenze zwischen den Vereinigten Staaten und Mexiko hinweg erstreckt und im Westen vom Pazifischen Ozean, auf der anderen Seite vom Meer von Cortez umspült wird. Das Großartige, Unvorhersehbare, Unerwartete jener Reise zeigte sich ziemlich bald, als uns an der Station Ensenada einer der beiden Fahrer mitteilte, dass gerade ein Wirbelsturm über die Halbinsel hinwegzog, man wusste aber nicht genau, wo, und deshalb würden wir früher oder später anhalten müssen, um auf eine für uns günstige Entwicklung der Ereignisse zu warten. Das bedeutete eine fast zehnstündige Pause im Busbahnhof von Guerrero Negro (wo wir im Schlaf vor Morgengrauen angekommen waren), vor dessen Küsten in den Wintermonaten die Wale ihre Jungen zur Welt bringen. Zu jener Zeit interessierte ich mich aber noch nicht so für Walfische, und da es Sommer war, war ich ohnehin zur falschen Jahreszeit dort, ich glaube aber, dass die Sache trotzdem eine Bedeutung hat.
Für einen einfachen Bus, der den nördlichsten Teil der Halbinsel mit dem südlichsten verband, wartete er mit einer breiten und bunten Vielfalt von Menschentypen auf. Im Besonderen schlossen wir Freundschaft mit zwei typischen Mexikanern, die in die Gegend von Los Angeles ausgewandert waren und die so typisch waren, dass du sie dir nicht anders vorstellen könntest als so, wie sie waren, mit bronzenem Teint und Schnurrbärtchen. Melchiòr und Tio Felipe (er reiste mit seinem Söhnchen und einem kleinen Neffen, der ihn jedes Mal, wenn er sich ihm zuwandte, so nannte). Im Bus waren auch noch sechs Deutsche, drei aus Köln und drei aus Leipzig, die sich grimmig ansahen.
Jedes Mal, wenn sie jemand fragte, woher sie kämen, antworteten die drei aus Leipzig unbeirrt, und zwar in einem noch kläglicheren Englisch als meinem, dass sie aus East Germany stammten, bis schließlich Tio Felipe irgendwann dem Theater ein Ende setzte und sagte, dass es seines Wissens seit einigen Jahren nur mehr ein einziges Deutschland gäbe.
Der Bus fuhr am frühen Nachmittag weiter und nach der Siesta der Fahrer hatte uns ein aus der Gegenrichtung kommender Bus unterrichtet, dass die Straße nun wieder offen wäre: na ja… sie hießen uns alle Sachen aus dem Kofferraum holen, denn entlang des Weges mussten wir ziemlich viele Furten durchqueren und es bestand die Gefahr, dass die Rucksäcke, Taschen und Koffer nass würden. Bei jedem Halt stiegen die Mexikaner und die Deutschen aus, um Bier und Tequila zu kaufen. Melchiòr erzählte Geschichten: er sagte uns, dass er wie einer der Heiligen Drei Könige hieße, dass er zwei Brüder hätte, Balthasàr und Caspàr, und dass – als Krönung des Ganzen – seine Frau Reina hieße, was auf Spanisch Königin bedeutet. Etwas weiter vorn war ein Paar am Schmusen, in der ersten Reihe schwitzte ein Herr mit pomadigem Haar und unvermeidlichem Schnurrbärtchen gleichmütig vor sich hin, ohne eine Miene zu verziehen. Zwei der Jungs aus Leipzig und Tio Felipe waren schließlich ganz schön benebelt, zur Freude der beiden Kinder, die dem schnauzbärtigen Angehörigen zusahen, wie er, über den Sitz gebeugt, sich dem Schlaf hingab und dabei laut schnarchte.
Als wir unser Ziel erreichten, das auch jenes der drei Kölner war, war es erneut fast Nacht geworden und wir mussten noch einen Platz zum Schlafen finden, doch bevor der Bus wieder weiterfuhr, blieb noch Zeit für ein Bier an Bord und dann Umarmungen und Schulterklopfen mit Melchiòr, den drei Leipzigern und Tio Felipe.
Während in der Zahnarztpraxis die Zahnpflegerin meine Zahnreinigung beendete, versuchte ich jene Reise in die heutige Realität zu übertragen. Heute wäre es eine höchst unerfreuliche Reise geworden: ein halbleerer Bus, die Fahrgäste mit Gesichtsmaske und Abstand, keine Umarmungen bei der Ankunft am Ziel. Und darum freue ich mich so sehr über jene Reise, und da die Reise das Leben ist, freue ich mich so sehr über mein Leben, das nicht immer eitel Sonnenschein ist, das, wie alle Leben, auch aus Licht und Schatten besteht. Doch es ist mein Leben und das reicht.
Ich hoffe, ich bin nicht zu weitschweifig geworden, Barbara. Manchmal verliere ich den Faden, das habe ich dir bereits geschrieben, vor allem dann, wenn es ums Geschichtenerzählen geht. Ich möchte noch etwas zu unserer Reise sagen. Denn in der Tat war auch dieser Austausch von Briefen so etwas wie eine Reise, manchmal innerlich, manchmal nicht, eine Reise auf der Grundlage eines Briefwechsels zwischen Unbekannten. Alles in allem würde ich auch sagen, eine schöne Reise. Abschließen möchte ich wieder mit einem Zitat aus der Rockmusik, die ich gern höre, und zwar mit einem Song der Kinks mit dem Titel Strangers, wo es im Refrain heißt: Fremde sind wir unterwegs auf dieser Straße, doch wir sind nicht zwei, wir sind einer… und so ist es im Leben, im Bus, in den Briefwechseln.
Gute Weiterreise, aloha!
Paolo
übersetzt von Werner Menapace
22. Juni 2020
Lieber Paolo!
Dein Brief berührt mich, weil ich glaube, deine Emotionen herauslesen zu können, und weil ich das Gefühl habe, dich immer besser zu kennen und zu schätzen – als Person, als Mensch, mit deinen Einstellungen und Erfahrungen, Werten und Träumen, Freuden und Verletzungen. Ich spüre instinktiv deine Wut und deine Enttäuschung, wenn du über das schreckliche und scheinbar sinnlose Leiden deiner Mutter berichtest, und die gefühlte Ohnmacht, den Schrecken und den Zorn, wenn du von den furchtbaren Ereignissen unserer Zeiten erzählst – Ereignisse, die angesichts unserer Vergangenheit schon längst nicht mehr hätten passieren dürfen. Und es tut mir unglaublich leid, dass du den Schmerz deiner Mutter miterleben musstest, dafür gibt es keine Worte. Es tut mir leid, dass immer wieder Dinge passieren, die unmenschlich sind, so grausam und schrecklich und dumm. Mich betreffen all diese Situationen genauso, sie machen mich sehr traurig und wütend und nachdenklich. Außerdem bin ich mir meiner Kleinheit natürlich sehr bewusst, ich weiß, dass ich – selbst wenn ich es wollte – nicht all die großen Probleme unserer Welt lösen kann. Und trotzdem – dieser Hoffnungsfunken, von dem du sprichst, er lodert auch in mir und er ist notwendig, um all die kleinen Schritte zu tun, um zumindest im eigenen Einflussbereich auch nur eine positive Veränderung zu bewirken.
Ich persönlich glaube nicht an einen Gott, der den Menschen verdirbt, sondern ich glaube, dass dies der Mensch ganz alleine schafft. Die Freiheit des Menschen sehe ich in seiner Entscheidungsmöglichkeit, die Welt auf eine bestimmte Art und Weise zu sehen und auf bestimmte Art und Weise zu handeln. Vereinfacht ausgedrückt, glaube ich, dass sich der Mensch immer zwischen Gut und Böse entscheiden kann. Und das Böse erscheint uns manchmal vielleicht als einfacher, als kurzfristig gewinnbringender. Außerdem ist es „ja gar nicht so schlimm“, denn „jeder“ handelt schließlich so, also warum sollte genau ich anders handeln und mir damit vermeintlich selbst im Weg stehen? Wir sind alle kleine Geschichtenerzähler und wie du schön beschrieben hast, ist es für uns ein Leichtes, uns eine passende Geschichte zurechtzulegen, um alles Mögliche und Unmögliche zu rechtfertigen. Aber – wir wissen es eigentlich besser, wir spüren es, wenn wir an der Wegkreuzung in die falsche Richtung laufen. Manchmal wird es uns vielleicht erst nach einer Weile bewusst, aber dann umzukehren würde ja bedeuten, sich selbst eingestehen zu müssen, die lange Wegstrecke umsonst gegangen zu sein. All die Blasen an den Füßen, der vergossene Schweiß, die Menschen, die uns am Wegesrand vielleicht angefeuert haben oder die wir zurückgelassen haben. Wer will da umdrehen? Lieber laufen wir stur weiter, in dieselbe Richtung, auch wenn wir schon längst erkannt haben, dass dort drüben nur der Abgrund auf uns wartet. Und doch – manche von uns haben den Mut, trotzdem umzukehren und das Richtige zu tun. Wie wäre es, wenn wir anstatt der vielen negativen Nachrichten in unseren Medien öfters über solche Vorbilder erzählen würden? Wir könnten es ihnen nachmachen. Es zumindest versuchen, immer wieder. Dabei geht es weniger um das Ziel, den göttlichen Heiligenschein als Prämie zu erobern, noch um irdische Lorbeeren, sondern es geht um die Würde unseres Menschseins.
Was du über die Liebe schreibst, beobachte ich auch mit großem Bedauern, manchmal auch an mir selbst. Ist es nicht jedem von uns schon so ergangen, dass wir angesichts eines verletzenden Erlebnisses unser Herz verschlossen haben? Es ist normal und gut, uns selbst zu schützen. Die Schwierigkeit liegt darin, zu erkennen, wann die Gefahr wieder vorbei ist – manchmal liegt sie auch darin, zu erkennen, von dem die Gefahr eigentlich wirklich ausgeht – und dann besteht die große Herausforderung darin, die eigene Angst zu überwinden und sich wieder der Liebe zu öffnen. Du hast recht, wenn du schreibst, dass viele Menschen dazu nicht in der Lage sind. Vielleicht wollen sie es auch einfach nicht. Und jetzt schreibe ich etwas, womit ich meinen Gedanken im vorigen Absatz scheinbar widerspreche, wenn ich von der Wahl schreibe, die jeder Mensch in jeder Situation hat. Natürlich hat jeder von uns diese Freiheit und damit zugleich die große Verantwortung, über unser Erleben und unser Tun zu entscheiden. Aber um diese Entscheidung treffen zu können, müssen wir zuerst um sie wissen – das heißt, wir müssen erkennen, dass wir überhaupt eine Wahl haben. Damit möchte ich dem Einzelnen nicht die Macht nehmen, immer über sein Leben zu verfügen, sondern uns vielmehr dazu auffordern, dem anderen in einer für ihn scheinbar ausweglosen Situation die Hand zu reichen und ihm wieder neue Möglichkeiten aufzuzeigen. Denn ich glaube, wir erleben alle manchmal Momente, in denen wir diese unsere Wahl eben nicht erkennen und dementsprechend von unserer Freiheit des Wählens auch nicht Gebrauch machen können. Wie schön wäre es, wenn wir uns, mit unserer gewohnheitsmäßigen Lebensweise und unseren konkreten Hilfestellungen im Moment, vermehrt gegenseitig unterstützen würden, unsere Möglichkeiten zu erweitern und von ihnen Gebrauch zu machen? Ein Vogel, der nicht weiß, dass er Flügel hat, kann nicht fliegen lernen. Aber wenn viele Vögel um ihn herum fliegen, kann er sie imitieren. Um wie viel leichter fliegt er dann los! Und wenn der Vogel durch einen Unfall etwa verletzt wird, muss sein Flügel heilen und danach bedarf es der Unterstützung eines anderen Vögleins, das ihm wieder Mut zuflüstert, es nochmals zu probieren.
Ich bin in meinem Leben immer wieder Menschen begegnet, die mir geholfen haben, meine Flügel auszubreiten – in Momenten, in denen ich selbst nicht daran glaubte, dazu imstande zu sein. Das ist ein großes Geschenk und ich bin unendlich dankbar dafür. Ich hoffe, auch selbst das Glück zu haben, anderen Menschen diesen Dienst erweisen zu können.
Ich möchte diesen vielleicht persönlichsten meiner Briefe mit einem großen Dank an dich, Paolo, beenden – die Begegnung mit dir hat mich verändert, bereichert. Jede Begegnung mit einem anderen Menschen auf Herzebene verändert und bereichert uns – vielleicht liegt hierin das Geheimnis unserer Wirkungsmöglichkeit auf dieser Welt verborgen – diese Begegnungen zu erkennen, zu schätzen, bewusst zu gestalten, zu feiern.
Es hat mir große Freude bereitet, dich kennenzulernen und mich mit dir anhand unseres literarischen Briefwechsels auszutauschen. Ich wünsche dir von Herzen alles erdenklich Gute.
Liebe Grüße,
Barbara
17. Juni 2020
Cara Barbara!
Nel nostro piccolo, hai ragione, i sogni sono storie che ci raccontiamo nel sonno. Però possono essere piccole storie dai grandi valori. Credo che mai come in questo periodo stia tornando argomento di attualità il sogno di un grande uomo che ha dato il calcio d’avvio ad una rivoluzione senza armi per cambiare il mondo, o almeno un certo tipo di mondo. Un mondo sbagliato.
“Ho un sogno”… così Martin Luther King aveva iniziato il suo famoso discorso alla marcia per i diritti civili nel 1963… Un sogno che era forse soprattutto una speranza… Forse quel calcio d’inizio non è stato però abbastanza forte, sono passati quasi sessant’anni, ma quello che vedo in televisione quando guardo un telegiornale nelle ultime settimane mi suggerisce che la strada da fare è ancora tanta.
Ma come è possibile? C’è stato un momento in cui abbiamo creduto (la mia generazione e quella precedente) che i tempi fossero davvero cambiati. Ma evidentemente abbiamo dormito sugli allori. Troppo. E il male ne ha approfittato per rimettere le sue spinose radici.
Siamo cresciuti in un mondo comodo, abbiamo assistito all’avvento di tecnologie incredibili, sia nel campo del benessere che, purtroppo, in quello delle armi di distruzione. Me lo chiedo spesso cosa potrei fare per cambiare il mondo in meglio, però le risposte giuste preferisco ignorarle perché sono consapevole che dovrei cambiare stile di vita, rinunciare alle cose che mi piacciono. Allora trovo delle risposte di comodo, cerco di guardare il mondo da lontano, come se vivessi su un altro pianeta. Un pianeta affollato da un sacco di altre persone come me, che in un certo senso sono consapevoli ma cercano di raccontarsi una storia diversa. E a me che sono uno a cui raccontare piace, questo risulta molto facile.
Parlo per me, ma ho il sospetto che il discorso valga per buona parte degli esseri umani. Quegli esseri umani, Barbara, riguardo ai quali nella tua lettera ti ponevi un sacco di domande. A partire dal vecchio concetto dell’ “Homo homini lupus” che menzionavi tu stessa: siamo davvero così bestie? Qualcuno lo è di certo. Con buona pace delle bestie, che tutte bestie cattive non sono. Noi umani dovremmo elevarci in questo, ci hanno sempre raccontato la storia della fiammella che ci brucia dentro e che fa la differenza rispetto agli altri animali. Perché animali in fondo siamo anche noi, per definizione. Ma la fiammella dovrebbe distinguerci. L’anima, o qualunque altra cosa essa sia. Il lupo è lupo, è la sua natura, ma noi? Per certe situazioni può valere l’istinto di sopravvivenza, certo, ma in determinate situazioni non ci sono scuse: penso alle belve umane forgiate dalle varie mafie ma anche, naturalmente, alle follie a cui conducono guerre, tirannie e dittature.
Come vedi, Barbara, non sei l’unica ad avere tante domande senza risposte. Ma il concetto del qualcosa di ancestrale chiamato amore, che ci mette tutti in connessione è poi quello che veramente fa la differenza, anche se non è poi così scontato che tutti ne siano capaci… Come ormai avrai capito la musica per me è sempre una fonte di riferimenti e c’è proprio una bella canzone dei Talking Heads che si intitola People Like Usin cui questi concetti sono espressi alla grande: “…non abbiamo bisogno di libertà / non abbiamo bisogno di giustizia / abbiamo solo bisogno di qualcuno da amare”.
Qualcuno da amare. Sembra così semplice, ma se mi guardo bene attorno mi rendo conto che in giro c’è tanta gente che l’amore non sa dove stia di casa. Gente del tutto incapace di amare, e gente che di amare ha paura. L’amore in senso lato, ma anche quello per una persona specifica. Potrei azzardare che si tratta di un frutto malriuscito della società contemporanea, ma se penso in quante culture, anche quelle occidentali, l’amore sia stato bistrattato e messo alla berlina da sempre, quasi fosse un demone da tener lontano. Allora torno all’idea di partenza, cioè quella che nell’essere umano ci sia qualcosa di sbagliato, e quel qualcosa ha le sue fondamenta nelle religioni, quelle che impongono matrimoni senza amore, ma anche quelle che nell’amore vedono qualcosa di peccaminoso da cui bisogna fuggire, di cui non si deve parlare. Eppure quelle stesse religioni, quella cristiana in primis, inneggiano a divinità compassionevoli, misericordiose e buone, che ci dicono amino le loro creature, ma sono pronte a castigarle con una cattiveria degna delle più feroci belve umane che la storia della (dis)umanità ci ha tramandato.
Penso che mia mamma sia stata la persona più buona che io abbia conosciuto, credente ma non bigotta, rispettosa, umile, intelligente. Eppure l’ho vista morire in silenzio, patendo sofferenze insopportabili, senza lamentarsi. E ti confesso che io non riesco ad accettare che un dio come il suo, come quello che avrebbe voluto fosse anche il mio possa aver sottoposto a tali sofferenze chi gli sempre creduto in lui come ha fatto mia mamma.
Vorrei salutarti con un ultimo pensiero riguardo al sogno di Martin Luther King con cui avevo iniziato questa lettera di cui sto perdendo il controllo, Barbara: da un lato sono sempre più perplesso nel veder moltiplicarsi i fenomeni di violenza e intolleranza, dall’altro la mia parte ottimista predominante gioisce nel vedere scendere in piazza la gente, soprattutto i giovani per manifestare, dire la loro, far vedere e sentire che ci sono, che vogliono farsi ascoltare.
E quello che fa ancor più grande e importante questo scendere in piazza è il fatto che lo abbiano fatto di sabato, con le scuole chiuse; il fatto di scendere in piazza per una causa davvero sentita e non soltanto per prendersi un giorno di vacanza, questo mi ha allargato il cuore.
E c’è un bisogno spropositato di cose che allarghino il cuore, non trovi Barbara?
È tutto davvero, per oggi, aloha e a presto
Paolo
Liebe Barbara!
In unserer kleinen Welt hast du recht, Träume sind Geschichten, die wir uns im Schlaf erzählen. Doch es können kleine Geschichten von großem Wert sein. Ich glaube, mehr denn je wieder aktuell wird der Traum eines großen Mannes, der den Anstoß zu einer Revolution ohne Waffen gegeben hat, um die Welt zu verändern, oder zumindest eine bestimmte Welt. Eine falsche Welt.
„Ich habe einen Traum”… mit diesen Worten begann Martin Luther King seine berühmte Rede beim Marsch für die Bürgerrechte im Jahr 1963… Ein Traum, der vielleicht vor allem eine Hoffnung war … Aber vielleicht war jener Anstoß nicht stark genug, es sind fast sechzig Jahre vergangen, doch was ich in den letzten Wochen in den Fernsehnachrichten gesehen habe, sagt mir, dass noch ein langer Weg vor uns liegt.
Wie ist denn das möglich? Es gab eine Zeit, da glaubten wir (meine Generation und die vorhergehende), die Zeiten hätten sich tatsächlich geändert. Aber offensichtlich haben wir uns auf den Lorbeeren ausgeruht. Zu lange. Und das Böse hat das ausgenutzt, um wieder seine stacheligen Wurzeln zu treiben.
Wir sind in einer bequemen Welt aufgewachsen, wir haben das Aufkommen unglaublicher Technologien erlebt, sowohl auf dem Gebiet des Wohlbefindens als auch, leider, auf jenem der Zerstörungswaffen. Ich frage mich oft, was ich tun könnte, um die Welt zu verbessern, die richtigen Antworten aber ignoriere ich lieber, weil ich mir bewusst bin, dass ich meinen Lebensstil ändern, auf Dinge verzichten müsste, die mir lieb sind. Also finde ich Gefälligkeitsantworten, versuche die Welt aus der Ferne zu betrachten, als ob ich auf einem anderen Planeten lebte. Ein Planet, dicht bevölkert von einem Haufen weiterer Leute wie mich, die in einem gewissen Sinn klarsehen, sich aber eine andere Geschichte zu erzählen versuchen. Und das fällt mir, der ich ein leidenschaftlicher Erzähler bin, sehr leicht.
Ich spreche für mich, doch ich habe den Verdacht, dass dieser Diskurs für einen guten Teil der menschlichen Wesen gilt. Jene menschlichen Wesen, Barbara, zu denen du dir in deinem Brief eine Menge Fragen gestellt hast. Ausgehend von der alten Vorstellung des „Homo homini lupus“, die du selbst erwähnt hast: sind wir wirklich solche Bestien? Einige sind es sicher. Ohne die Bestien beleidigen zu wollen, denn nicht alle sind böse Bestien. Wir Menschen sollten uns in diesem Punkt hervorheben, man hat uns ständig die Geschichte vom Flämmchen erzählt, das in uns brennt und das uns von den anderen Tieren unterscheidet. Denn Tiere sind im Grunde auch wir, per definitionem. Das Flämmchen aber sollte uns unterscheiden. Die Seele, oder was immer es auch sein mag. Der Wolf ist ein Wolf, das ist seine Natur, doch wir? Für gewisse Situationen mag der Überlebensinstinkt gelten, gewiss, doch in bestimmten Situationen gibt es keine Entschuldigung: ich denke an die von den verschiedenen Mafiaorganisationen geschaffenen menschlichen Bestien, aber natürlich auch an den Wahnsinn, zu dem Kriege, Gewaltherrschaften und Diktaturen führen.
Wie du siehst, Barbara, bist du nicht die Einzige mit so vielen Fragen ohne Antworten. Doch die Vorstellung von so etwas wie einem Urgefühl namens Liebe, das uns alle verbindet, macht dann tatsächlich den Unterschied aus, auch wenn nicht gesagt ist, dass alle dazu fähig sind… Wie du inzwischen verstanden haben wirst, ist die Musik für mich eine ständige Bezugsquelle, und da gibt es einen schönen Song der Talking Heads mit dem Titel People Like Us, in dem diese Vorstellungen trefflich zum Ausdruck gebracht werden: „…wir brauchen keine Freiheit / wir brauchen keine Gerechtigkeit / wir brauchen nur jemand, den wir lieben”.
Jemand, den wir lieben. Das klingt so einfach, doch wenn ich mich genau umsehe, wird mir bewusst, dass es eine Menge Leute gibt, die nicht wissen, wo die Liebe zu Hause ist. Leute, die völlig liebesunfähig sind und Leute, die Angst vor der Liebe haben. Liebe in weiterem Sinn, aber auch die zu einer bestimmten Person. Ich könnte mutmaßen, dass es sich um eine Fehlentwicklung der gegenwärtigen Gesellschaft handelt, doch wenn ich denke, in wie vielen Kulturen, auch in den westlichen, die Liebe seit jeher malträtiert und an den Pranger gestellt wurde, als ob sie ein Dämon sei, den es abzuwehren gilt. Dann kehre ich zur Ausgangsvorstellung zurück, nämlich dass es im Menschen etwas gibt, das falsch ist, und dass dieses Etwas auf die Religionen gründet, auf jene, die zu Eheschließungen ohne Liebe zwingen, aber auch auf jene, die in der Liebe etwas Sündhaftes sehen, das man meiden muss, worüber man nicht sprechen darf. Und doch lobpreisen eben diese Religionen, an erster Stelle die christliche, mitleidsvolle, barmherzige und gute Gottheiten, die angeblich ihre Geschöpfe lieben, dann aber nicht zögern, sie mit einer Erbarmungslosigkeit zu bestrafen, die der grausamsten menschlichen Bestien würdig ist, die uns die Geschichte der Menschheit und Unmenschheit überliefert hat.
Ich denke, meine Mutter war die liebste Person, die ich kannte, gläubig, aber nicht bigott, respektvoll, bescheiden, intelligent. Und doch habe ich sie stumm sterben sehen, unter unerträglichen Qualen, ohne zu klagen. Und ich gestehe dir, dass ich nicht akzeptieren kann, dass ein Gott wie der ihre, den sie sich auch als den meinen gewünscht hätte, solche Qualen für jemand vorsehen konnte, der, so wie meine Mutter, stets an ihn geglaubt hatte.
Ich möchte mich mit einem letzten Gedanken zum Traum von Martin Luther King verabschieden, mit dem ich diesen Brief begonnen habe, der meiner Kontrolle entgleitet, Barbara: einerseits werde ich immer ratloser, wenn ich sehen, wie sich die Fälle von Gewalt und Intoleranz häufen, andererseits freut sich der optimistische Teil von mir – der stärkere –, wenn ich sehe, wie die Leute, vor allem die jungen, auf die Straße gehen, um zu demonstrieren, mitzureden, zu zeigen und zu sagen, dass es sie gibt, dass sie gehört werden wollen.
Und was dieses Auf-die-Straße-Gehen noch größer und wichtiger macht, ist die Tatsache, dass sie es an schulfreien Samstagen getan haben; dass man für eine Sache auf die Straße geht, die einem wirklich am Herzen liegt, und nicht nur, um sich einen freien Tag zu machen, hat mich froh gestimmt.
Und es gibt ein unbändiges Bedürfnis nach Dingen, die einen froh stimmen, findest du nicht, Barbara?
Das ist wirklich alles für heute, aloha und bis bald
Paolo
übersetzt von Werner Menapace
13. Juni 2020
Lieber Paolo!
Träume sind kleine Geschichten, die wir uns des Nachts selbst erzählen, wenn unser Wächter vor der Pforte des Unterbewusstseins endlich eingeschlafen ist und sich unsere vielen Gedanken und Gefühle in bunte, abstrakte und teils bizarre Bilder kleiden. Die Vorstellung beginnt – wie auf einer 4-D Kinoleinwand wird uns der Film vorgeführt und wir schlüpfen meist selbst in die Rolle des Protagonisten, um alle Emotionen der Seifenoper, der Komödie, des Thrillers, des Science-Fiction-Films oder des Horrorfilms hautnah zu erleben. Diese Geschichten erzählen uns etwas über uns selbst im Speziellen und über den Menschen im Allgemeinen, öffnen sie doch die Tür zu unseren intimsten Wünschen, Erfahrungen und Ängsten. Und so werden diese kleinen Geschichten, unsere Träume, aneinandergereiht wie Perlen auf einer langen Kette, zu einer großen Erzählung – über uns selbst und unsere persönliche Entwicklung sowie über das Wesen und die Evolution der Menschen generell. Ob arm oder reich, ob schwarz oder weiß, ob jung oder alt – wir sind uns im Grunde doch alle viel ähnlicher, als wir es uns selbst oft eingestehen wollen. In unseren Träumen ähneln wir uns alle. Die Farbe und Beschaffenheit der Bilder ändert sich wohl je nach Erfahrungswelt, doch das Wesen unserer Traumerfahrungen ist identisch. Unsere Träume ermöglichen uns einen tiefen Einblick in das, was uns innerlich bewegt, und in das kollektive Unbewusste des Menschen.
Du schreibst von einem beängstigenden Albtraum, der dich in deiner Kindheit wiederholt heimgesucht hat – auch ich kann mich an wiederkehrende Albträume erinnern. Ich glaube, im Grunde durchleben wir sie alle – und sie sind sich wieder sehr ähnlich. Unsere intensivsten Traumerlebnisse docken an Archetypen der Menschheit an, an feste Urbilder, die wir verborgen seit Anbeginn der Zeiten in uns tragen, und erlauben uns wiederum eine Analyse unserer menschlichen Natur.
Doch vielleicht klingen dir meine traumpsychologischen Gedanken zu mystisch, Paolo. Und wenn wir schon über die Wesenheit der Dinge sprechen und damit ohne Umwege zu den großen Fragen der Philosophie vordringen, dann sollten wir uns auch fragen, was denn das eigentlich Menschliche überhaupt ausmacht, von dem ich vorher gesprochen habe und das sich auch in unseren Träumen in mannigfaltigen Bildern zeigt? Was entspricht der wahren Natur des Menschen? Wie ist das menschliche Wesen beschaffen? Ich habe mehr Fragen als Antworten, Paolo. Aber ich glaube fest daran, dass es etwas Urmenschliches in uns gibt, das uns alle miteinander verbindet. Und ich spreche nicht davon, dass der Mensch dem Menschen ein Wolf ist, was ein sicherlich sehr negatives Bild auf unsere Spezies wirft. Nein, ich glaube, dass das eigentlich Menschliche die Qualität ist, die unser Herz der Liebe öffnet, die unsere Hand dem Nächsten ausstrecken lässt, damit er sie ergreifen möge, und die zugleich den Geist zum Transzendentalen, Göttlichen, Ewigen hin ausrichten lässt, von dem wir alle eine tiefe Ahnung in uns tragen. Wir hören den Ruf der Unendlichkeit in uns, auch wenn er im Alltagsgetöse oft übertönt wird und wir ihn oft gar nicht wahrnehmen wollen. Wir spüren den glühenden Funken in uns, der jeden Tag aufs Neue zu einem lodernden Feuer entzündet werden will und selbst die tiefste Nacht zu erhellen imstande ist. Und diese Flamme brennt, sie brennt so stark in uns, wenn wir ihr Feuer nicht nähren, wenn wir sie verkohlen lassen und verschütten und mit Asche ersticken. Es ist ein tiefer Schmerz, den wir betäuben, mit allem, was uns unser komfortables Leben an Ablenkung bieten kann. Schlechtes Essen, Alkohol, Zigaretten, andere Drogen, fernsehen, Dauerberieselung diverser Form. Die Liste ließe sich unendlich fortsetzen. Wovor haben wir Angst? Wieso verwenden wir so viel Anstrengung darauf, diesen Funken in uns zu ersticken? Der Dornbusch, er brennt in jedem von uns! Ist es möglich, dass uns unsere Freiheit und unsere Möglichkeiten, unsere Größe und unsere Macht mehr ängstigen als es Ohnmacht, Kleinheit und Einschränkung tun?
Lieber Paolo, auch in mir brennt es. Aber diesen Schmerz, ich will ihn spüren! Ich will ihm nachgehen, ich will ihn befragen, ihm zuhören und ihm nachgeben. Könnte es sein, dass dieser Schmerz uns auf etwas aufmerksam machen will, auf einen Widerspruch zwischen unserer jetzigen Lebensweise und dem, was unserer wahren Natur entsprechen würde? Ist es diese Diskrepanz, die uns schmerzt und dazu auffordert, noch mehr vorzudringen zu unserem eigentlichen Wesen?
Ist es also wahr, wenn ich glaube, dass das Urmenschliche in uns in Wirklichkeit eine geballte Quelle der Liebe, Kraft, Weisheit ist? Wie immer haben wir die Wahl – die Freiheit zu wählen, dem Feuer in uns nachzuspüren oder nicht, und die Freiheit, unser Wesen so oder anders zu definieren. Und natürlich kann auch ich nur Vermutungen anstellen. Doch ich ziehe es vor, die Natur der Menschen als kraftvoll, liebevoll, leidenschaftlich, mitfühlend und hilfsbereit anzusehen. Nur wenn ich das glaube, kann ich auch ein diesen Werten entsprechendes Verhalten üben und fordern. Und weil wir von Träumen gesprochen haben – wovon träumen wir denn eigentlich? Träumen wir nicht alle dieselben Träume von Freude und Glück, von Gesundheit, Hoffnung, Liebe und Mut? Und wenn dem so ist – was können wir in der Wachwelt tun, um uns in unserer Lebensrealität ein Stück weit diesen Träumen anzunähern?
Lieber Paolo, ich wünsche dir, dass du weiterhin träumst und einen Weg findest, jeden Tag aufs Neue konkret deinen Träumen nachzugehen und so ein Stück mehr Traum für uns alle hier erschaffst.
Ich grüße dich herzlich,
Barbara
9. Juni 2020
Cara Barbara!
Leggendo la tua lettera vedo che non sono l’unico a fare sogni strani. La differenza è che tu te li ricordi!!! Io ho avuto un periodo, tra i venti e i trent’anni, in cui facevo sogni pazzeschi tutte le notti, alcuni erano veri e propri film, strampalati a volte, ma con una trama ben precisa. E la cosa più sorprendente era che al mattino quando mi svegliavo li avevo così bene impressi nella mente che mi affrettavo a scriverli su un quadernetto, tipo Moleskine, che mi portavo sempre appresso. Scrivevo anche altre cose, per lo più cose visionarie, ma anche tentativi di canzoni. In realtà io non so suonare niente, ma mi piacevano le canzoni. E mi piacciono ancora…
Ho degli amici musicisti, o che semplicemente si dilettavano suonando la chitarra a buon livello, un paio avevano anche delle buone idee di giri di accordi su cui mettere un testo, io avevo il dono della scrittura (sei d’accordo che sia un dono, vero Barbara?) e così accadeva che giocassimo a scrivere le canzoni, canzoni che alla fine venivano ascoltate solo da noi e da qualche amico più magnanimo degli altri.
I modelli? Di sicuro a quell’epoca c’era Bruce Springsteen, che non era ancora commerciale, ma anche altri. Sui quadernetti, ne ho quattro o cinque conservati in un’anta della libreria dello studio da cui ti scrivo, insieme ai testi di queste canzoni ci sono anche i miei sogni, anzi credo che in un paio di casi i sogni siano coincisi con le canzoni. In seguito qualche sogno è finito pure nei miei racconti, tanto la trama era avvincente; poi però ho cominciato a non ricordarmeli più! Magari al risveglio, nel torpore mattutino, qualche traccia resta ancora ma sbiadisce alla velocità della luce, e comunque ad un certo punto ho smesso presto di trascriverli sui miei quadernetti. Una delle ultime volte che ho usato un sogno per costruirci su un racconto è stato più di quindici anni fa, era un sogno che mi era rimasto impresso talmente tanto che credo di averlo fatto decantare per giorni: la storia ce l’avevo così appiccicata addosso che ne è venuto fuori un racconto lungo, elaborato, roba da psicanalisi. Nel senso che ho finito per chiedere consulenza ad un amico psicologo per sapere se le cose che stavo scrivendo potessero essere plausibili in qualche modo pur non avendo io nessuna cognizione della materia. Mi rispose che la storia ci poteva stare.
Così l’ho scritta, lasciandola poi però nel cassetto, usandone solo una parte minima, una storia a sé all’interno di una storia più grande e articolata.
Un’altra volta, in assoluto l’ultima in cui un mio sogno è divenuto la base di una storia, è successo che una coppia di amici mi avevano invitato a trascorrere il fine settimana sull’Appennino Parmense e la mattina della partenza mi ero svegliato con un sogno pazzesco. Per tutto il viaggio di andata gliel’ho raccontato per non dimenticarlo, nella nottata successiva, armato di penna e quadernetto ho passato delle ore a trascrivere la storia, facendola già diventare narrazione, inserendo altri elementi. Un’esperienza curiosa visto che a parte le cose dei quadernetti le mie storie sono sempre nate su una macchina da scrivere e in seguito sulla tastiera di un PC. Anche questa storia è rimasta nel cassetto, ma continuo a credere che fosse molto buona. Il problema che per metterla in volume devo scriverne altre così.
Sto parlando troppo di scrittura.
Tornando ai sogni, mi ha colpito che tu avessi sognato le Orche proprio poco prima che io cominciassi a scriverti di balene. Ti confesserò che a me è successo spesso di sognarle e di nuotarci a fianco, soprattutto a ridosso dei periodi in cui ho avuto occasione di fare whale watching. Però non sognavo le Orche, bensì le Megattere che notoriamente non hanno denti e non possono mordere le gambe!
Quanto a cosa possa significare il sogno che hai fatto, non credo di poterti essere d’aiuto, anche se sicuramente ha a che fare col fatto che noi esseri umani, non essendo perfetti (come ci siamo già scritti) siamo molto influenzabili, anche quando pensiamo di essere determinati nel pensare una cosa. Tu evidentemente, per la tua natura, non sei una persona diffidente. E infatti giocavi con le Orche come se fosse stata la cosa più naturale del mondo, ma è bastato che le persone con cui eri, per altro degli sconosciuti, si siano messe in allarme per renderti più diffidente, per impaurirti.
Non è una cosa che dipende da te. È la natura umana. Ricordo che da bambino, potevo avere quattro o cinque anni, una sera venne a casa nostra una coppia di amici dei miei genitori: era la notte del Nikolaus e quando arrivarono, l’amico di mio papà mi raccontò che per strada avevano incontrato il Nikolaus e il Krampus. La descrizione che fece del Krampus era talmente credibile e terribile che quella notte feci solo incubi con diavoli cattivissimi che mi facevano male. Fu una notte tremenda che ricordo ancora ad oltre mezzo secolo di distanza!
Sempre quando ero bambino mi capitava di fare un incubo ricorrente: la casa in cui abitavamo era una di quelle case tipiche degli anni sessanta con i corridoi lunghi e le stanze, il bagno e la cucina che si affacciavano tutti sullo stesso lato del corridoio. La mia cameretta era la prima che si incontrava entrando nell’appartamento, quella dei miei genitori l’ultima. Loro mi avevano sempre raccomandato di stare attento, di non fermarmi per strada, di stare vicino a loro perché in giro c’erano i ladri di bambini. La cosa mi era entrata in testa così prepotentemente che per diverso tempo ho sognato la porta d’ingresso che si apriva e vedevo entrare una persona che vestita di nero che lì per lì identificavo con una mia zia suora, poi mentre le andavo incontro mi rendevo conto che i contorni mutavano e non erano lei ad entrare in casa, bensì una donna vestita di nero che mi portava via. Allora cominciavo a chiamare forte mio papà che puntualmente balzava giù dal letto e mi veniva a consolare. Ad un certo punto l’incubo era diventato talmente ricorrente e definito che la donna in nero aveva addirittura smesso di avere le sembianze della zia ed era fin dal suo primo apparire una rapitrice di bambini.
Mi sto dilungando un po’… e magari queste storie non sono nemmeno interessanti, ma leggere il tuo sogno ha messo in movimento un sottobosco di ricordi e di pensieri che mi ha condotto fin qui.
Prima di salutarti ti dirò che comunque continuo a sognare. La pandemia non ha fatto certo sparire i miei sogni. Non solo, credo siano sempre stati solo sogni, mai incubi, nonostante il periodo che stiamo attraversando li avrebbe potuti far classificare così. Ovviamente le trame non le ricordo, ma posso assicurarti una cosa Barbara, erano sogni zeppi di persone, affollati, sicuramente determinati dall’isolamento coatto a cui siamo stati sottoposti.
È tempo di salutarti Barbara, per oggi, continua ad aver cura di te.
Aloha e bis bald
Paolo
Liebe Barbara!
Wenn ich deinen Brief lese, sehe ich, dass ich nicht der Einzige bin, der sonderbare Träume hat. Der Unterschied ist, dass du dich daran erinnerst!!! Ich hatte eine Zeit, so zwischen zwanzig und dreißig, wo ich jede Nacht komische Träume hatte, einige waren regelrechte Filme, verrücktes Zeug bisweilen, aber mit einer klaren Handlung. Und das Überraschendste war, dass ich sie am Morgen beim Aufwachen so präsent hatte, dass ich sie schnell in einem Notizbuch festhielt, einem so wie Moleskine, das ich immer bei mir trug. Ich notierte auch andere Sachen, zumeist visionäre Geschichten, aber auch Ideen für Songtexte. Ich kann eigentlich kein Instrument spielen, aber ich hörte gern Musik. Und das tue ich immer noch…
Ich habe Freunde, die Musiker waren oder die gern und gut Gitarre spielten, einige hatten auch gute Ideen für Akkorde, zu denen man einen Text machen konnte, ich hatte die Gabe des Schreibens (einverstanden, dass es eine Gabe ist, oder, Barbara?) und so hatten wir unseren Spaß daran, Songs zu schreiben, die letztendlich nur wir und noch ein paar Freunde anhörten, die großmütiger als andere waren.
Vorbilder? Damals mit Sicherheit Bruce Springsteen, als er noch nicht kommerziell war, aber auch andere. In den Notizbüchern – vier oder fünf davon bewahre ich in einem Flügel des Bücherschranks im Arbeitszimmer auf, aus dem ich dir schreibe – finden sich neben den Texten dieser Songs auch meine Träume, ja, ich denke, dass in einigen Fällen die Träume mit den Songs identisch waren. Später hat der eine oder andere Traum auch in meine Erzählungen Eingang gefunden, weil die Handlungen so spannend waren; mit der Zeit aber konnte ich mich immer weniger daran erinnern! Beim Aufwachen, in der morgendlichen Trägheit, sind vielleicht noch Spuren da, doch die verblassen mit Lichtgeschwindigkeit, jedenfalls habe ich bald einmal aufgehört, sie in meinen Notizbüchern zu notieren. Eines der letzten Male, dass ich einen Traum verwendete, um daraus eine Geschichte zu machen, ist über fünfzehn Jahre her; dieser Traum hatte sich mir so stark eingeprägt, dass ich ihn, glaube ich, tagelang sedimentieren ließ: Die Geschichte ließ mich nicht mehr los, sodass eine lange, ausgefeilte Erzählung daraus wurde, etwas für die Psychoanalyse. Das heißt, ich wandte mich schließlich an einen befreundeten Psychologen, um ihn zu fragen, ob das, was ich da schrieb, irgendwie plausibel war, auch wenn ich keine Ahnung von der Materie hatte. Er versicherte mir, dass die Geschichte okay war.
Da habe ich sie niedergeschrieben, sie dann aber in der Schublade gelassen und nur einen ganz kleinen Teil davon verwendet, eine Geschichte für sich in einer größeren, umfassenderen Geschichte.
Ein andermal – eigentlich das letzte Mal, dass ein Traum von mir als Grundlage für eine Geschichte diente – hatte mich ein befreundetes Paar zu einem Wochenende im Apennin von Parma eingeladen, und ich war am Morgen der Abfahrt mit einem verrückten Traum aufgewacht. Um ihn nicht zu vergessen, sagte ich ihn während der ganzen Hinfahrt vor ihnen her. In der folgenden Nacht verbrachte ich Stunden damit, die Geschichte im Notizbuch niederzuschreiben, wobei ich bereits eine Erzählung daraus machte, indem ich andere Elemente hinzufügte. Eine komische Erfahrung, da meine Geschichten, abgesehen von den Sachen mit den Notizbüchern, immer auf einer Schreibmaschine und später auf der Tastatur eines PC entstanden. Auch diese Geschichte blieb in der Schublade, ich glaube aber nach wie vor, dass es eine sehr gute Geschichte ist. Das Problem ist, dass ich, um sie zu veröffentlichen, noch ein paar andere solche schreiben muss.
Ich rede zu viel über das Schreiben.
Um auf die Träume zurückzukommen, es hat mich erstaunt, dass du ausgerechnet kurz davor von den Orcas geträumt hast, als ich dir über Wale zu schreiben begann. Ich kann dir verraten, dass ich oft von ihnen und davon träumte, neben ihnen herzuschwimmen, vor allem zu den Zeiten, wo ich auf Whale-Watching-Tour ging. Ich träumte aber nicht von Orcas, sondern von Buckelwalen, die bekanntlich keine Zähne haben und uns nicht in die Beine beißen können!
Was der Traum bedeuten könnte, den du hattest, da kann ich dir, glaube ich, nicht weiterhelfen, auch wenn es sicherlich damit zu tun hat, dass wir Menschen unvollkommene Wesen sind (wie wir uns bereits geschrieben haben) und uns als solche sehr beeinflussen lassen, auch wenn wir uns einer Sache sicher zu sein glauben. Du bist offensichtlich von Natur aus nicht misstrauisch. Du spieltest nämlich mit den Orcas, als ob es das Natürlichste der Welt gewesen wäre, doch es genügte, dass die Personen, mit denen du zusammen warst und die du übrigens nicht kanntest, in Panik gerieten, um dich misstrauisch zu machen, in Angst zu versetzen.
Das hängt nicht von dir ab. Das ist die menschliche Natur. Ich erinnere mich, wie eines Abends, als ich noch klein war, vielleicht fünf oder sechs Jahre alt, ein mit meinen Eltern befreundetes Paar zu uns nach Hause kam: Es war die Nikolausnacht und als sie kamen, erzählte mir der Freund meines Vaters, dass sie unterwegs dem Nikolaus und dem Krampus begegnet waren. Die Beschreibung, die er vom Krampus gab, war dermaßen glaubhaft und fürchterlich, dass ich in jener Nacht lauter Albträume von richtig bösen Teufeln hatte, die mir wehtaten. Es war eine schreckliche Nacht, an die ich mich auch noch nach über einem halben Jahrhundert erinnere!
Ebenfalls als Kind hatte ich einen wiederkehrenden Albtraum: Das Haus, in dem wir wohnten, war eines jener typischen Häuser aus den Sechzigerjahren, mit langen Fluren und den Zimmern, dem Bad und der Küche, die alle zur gleichen Seite des Flurs hin lagen. Mein Kinderzimmer war das erste gleich hinter dem Wohnungseingang, jenes meiner Eltern das letzte. Sie hatten mir immer aufgetragen, vorsichtig zu sein, mich nicht auf der Straße aufzuhalten, in ihrer Nähe zu bleiben, denn es trieben sich Kinderräuber herum. Das ging mir nicht mehr aus dem Sinn, sodass ich eine Zeit lang träumte, dass sich die Eingangstür öffnete und ich eine schwarz gekleidete Gestalt sah, in der ich im ersten Augenblick eine Tante von mir erkannte, die Nonne war. Wenn ich ihr dann entgegenging, wurde mir bewusst, dass sich die Konturen veränderten und nicht sie es war, die das Haus betrat, sondern eine schwarz gekleidete Frau, die mich mitnahm. Da begann ich laut nach meinem Vater zu rufen, der jedes Mal aus dem Bett sprang und herbeieilte, um mich zu trösten. Irgendwann war der Albtraum so beständig und deutlich geworden, dass die Frau in Schwarz schließlich überhaupt nicht mehr wie die Tante aussah und gleich beim ersten Erscheinen eine Kinderräuberin war.
Ich komme ins Plaudern … und womöglich sind diese Geschichten überhaupt nicht interessant, doch mit dem Lesen deines Traumes ist ein Unterholz von Erinnerungen und Gedanken in Bewegung geraten, das mich hierhergeführt hat.
Bevor ich dich grüße, möchte ich dir jedenfalls sagen, dass ich nach wie vor träume. Die Pandemie hat meine Träume sicher nicht vertrieben. Nicht nur, ich glaube, es waren immer nur Träume, niemals Albträume, obwohl man sie angesichts der Zeit, die wir gerade durchleben, als solche hätte einstufen können. Natürlich kann ich mich an die Handlungen nicht erinnern, doch eines kann ich versichern, Barbara, es waren Träume voll mit Menschen, übervoll, zweifellos bedingt durch die Zwangsisolation, der wir uns unterziehen mussten.
Es ist Zeit, mich für heute zu verabschieden, Barbara, pass weiterhin auf dich auf.
Aloha und bis bald,
Paolo
übersetzt von Werner Menapace
3. Juni 2020
Lieber Paolo!
Nur das Wissen über die Vergangenheit lässt uns die Gegenwart verstehen und die Zukunft bewusst gestalten. Das Erzählen von Geschichten, wie du es dir zu deiner ganz persönlichen Lebensaufgabe gemacht hast, ist mehr als nur ein unterhaltsames oder informatives Weitergeben von Persönlichem und Informativem – es ist die Essenz dessen, was wir Menschen seit Millionen von Jahren machen, um das Wissen und die Erfahrungen der älteren an die jüngeren Generationen weiterzugeben, somit einen Überlebensvorteil zu schaffen und die Grundlage jeglichen Fortschritts überhaupt erst zu ermöglichen. Museen sind Orte der Erinnerung und des kollektiven Bewusstseins, die uns das Reflektieren unserer Wurzeln, aber auch unserer heutigen und künftigen Lebensrealität lehren. Ich finde, du hast einen sehr schönen und äußerst wichtigen Arbeitsplatz, Paolo.
Keine Geschichte ist wichtiger als die andere – im Flussbett befinden sich viele kleine Kieselsteine und mancher Felsbrocken, doch alle gemeinsam bestimmen sie den Lauf des Wassers. Wenn wir das nur endlich verstehen würden! Das ist der Grund, warum auch ich es wage, von einer farbenfrohen „Post-Corona-Zeit“ zu träumen. Aber darüber hatte ich schon geschrieben…
Du erzählst von Walen, diesen faszinierenden Giganten des Ozeans, die trotz ihrer Größe scheinbar mühelos durch das Wasser gleiten, lautlos elegant an die Oberfläche kommen und dann wieder in die Tiefe hinabtauchen. Das erinnert mich an einen Traum, den ich vor einigen Wochen hatte. Ich war im Wasser, zusammen mit ein paar anderen Personen, von denen ich nicht weiß, wer sie waren. Wir schwammen irgendwo im Freien, nahe des Ufers, das Wasser war tief, ich fühlte mich sehr wohl. Plötzlich tauchten vor unseren Augen drei Schwertwale auf, die spritzend aus dem Wasser sprangen und fröhlich miteinander spielten. Ich war unglaublich fasziniert von diesen herrlichen Geschöpfen und verspürte ein unbändiges Glücksgefühl. Noch nie in meinem Leben hatte ich einen echten Orca gesehen und auch im Traum war mir noch niemals einer begegnet. Gebannt schaute ich den spielenden Tieren zu und war völlig hingerissen von deren Schönheit und liebevollen Umgang miteinander. Es war mir, als könnte ich deren Gesänge hören und in das heitere Geplänkel miteinstimmen. Da schwammen die Wale zu meiner großen Freude auf uns zu, für mich war es eine Einladung zum Spiel, ein neugieriges Annähern, und mein Herz pochte selig erregt, als ich neben einem dieser imposanten Tiere herschwimmen durfte. Es war ein Gefühl unendlicher Freiheit und absoluten Glücks, das ich selbstvergessen genoss.
Einen Augenblick später drang das kreischende Schreien der anderen Personen zu mir – ich hatte gar nicht bemerkt, dass sie beim Annähern der Wale die Flucht ergriffen hatten. Sie fürchteten um ihr Leben und schwammen panisch davon, sie waren auch schon recht weit weg von mir, riefen mir nur irgendetwas zu. Da wandelte sich plötzlich mein Gefühlszustand, ich blickte auf die Orcas neben und hinter mir, auf ihre weiß-schwarzen Flecken, und auf einmal erschienen mir diese Tiere als bedrohlich, ja lebensgefährlich. Die Angst durchzuckte meinen Körper wie ein Blitz, weg waren die innige Freude und die unerklärliche Vertrautheit mit diesen Walen, die ich soeben noch empfunden hatte, die anderen Personen, mit denen ich seelenruhig im Meer geschwommen war, waren weit vor mir, auf ihr eigenes Fortkommen bedacht, sie konnten mir nicht zu Hilfe eilen. Ich war alleine, mit drei riesigen Orcas, und ich wusste, dass ich ihnen mit meinem lächerlichen Geplantsche nicht entkommen würde. Blitzschnell und eiskalt schoss mir die ausweglose Situation ins Bewusstsein – ich war wohl die Beute dieser Tiere, da gab es kein Entrinnen. Panisch versuchte ich davonzuschwimmen, ich schrie nach Hilfe, doch da sah ich schon einen Orca hinter mir auf mich zukommen und ich spürte gerade noch, wie er mich ins Bein zwickte.
Dann wachte ich auf. Irritiert. Ich konnte mich an alles haargenau erinnern, als ob ich es tatsächlich soeben mit allen Sinnen erlebt hätte. Der Traum war so schön gewesen! So unglaublich schön und beeindruckend. Es war ein unbeschreibliches Erlebnis, die Wale zu sehen, beim Spielen zu beobachten und dann sogar mit ihnen zu schwimmen, ganz vertraut und tief glücklich. Doch dann, ganz zum Schluss meiner fantastischen Traumreise, hatte sich alles gewandelt. Meine Freude wich der wachsenden Panik, mein herrlicher Traum war zu einem Alptraum geworden. Ich versuchte, den Traum zu analysieren und zu verstehen und ließ die Geschichte nochmals Revue passieren. Im ersten Moment, als die Personen die Flucht antraten und mir zuschrien, konnte ich das überhaupt nicht nachvollziehen und ich dachte mir noch, dass die Wale uns Menschen doch nicht angreifen würden. Dann aber erfasste mich doch die Angst, ich ließ mich mitreißen und meine Einschätzung der Situation war nun eine völlig andere. Wie konnte es sein, dass ich mich zuvor so sicher gefühlt hatte und nun dem Annähern der Wale eine völlig konträre Bedeutung zuschrieb? Und wer hatte eigentlich recht – die anderen, welche das Auftauchen der Orcas nur zum Zwecke des Angriffs und Tötens interpretierten, oder ich in meiner ursprünglichen Annahme, die Meeresgiganten luden uns zum Erleben eines einmaligen, unvergesslichen Momentes der geteilten Freude ein, indem wir uns voller Vertrauen und Neugierde einander näherten, zusammen spielten und lachten und in dieser wunderbaren Kulisse der unberührten Natur gemeinsam das glückliche Aufeinandertreffen zweier unterschiedlicher, aber doch so ähnlicher Spezies feierten? War ich vielleicht zu naiv gewesen, hatte ich die Situation komplett falsch eingeschätzt und dadurch meinen eigenen Tod herbeigeführt? Oder hätte ich meiner Intuition vertrauen und nicht auf die anderen hören sollen? Hatten wir am Ende vielleicht beide recht? Entscheidet die Auffassung der Situation selbst über deren Erleben und Ausgang?
Ich weiß es bis heute nicht, Paolo. Dieser Traum hat mich lange beschäftigt. Ich empfand es auch als ungewöhnlich, von Schwertwalen zu träumen, wo ich doch wie du mitten in den Bergen sitze und diese Orcas mitten aus dem unbewussten Nichts heraus an die halbbewusste Oberfläche meines Traumerlebens gestoßen sind, ohne dass ich dessen Botschaft bis jetzt jedoch ganz hätte entschlüsseln können. Vielleicht hast du ja einen Hinweis für mich.
Ich wünsche dir einen schönen Feiertag und nachts einen geruhsamen Schlaf, liebe Grüße,
Barbara
27. Mai 2020
Cara Barbara!
Eccomi di nuovo a te.
Ma dove ti trovi che vedi i delfini? Sono davvero incuriosito da questa cosa… ti immaginavo qui, tra le montagne, come me!
Probabilmente lo sei, d’altra parte con questa situazione pandemica che seppure allentata continua a gravarci addosso (e temo lo farà ancora per molto) chi può muoversi? Immagino allora che a sinistra della tua scrivania ci sia una foto di delfini che giocano in un porto. Io stesso, se guardo davanti a me, vedo la tomba di Jimi Hendrix in una foto di tre anni fa che ritrae il mio amico fraterno Patrick e me a Seattle, in pellegrinaggio rock.
Bella l’immagine dei delfini, animali senza dubbio dall’intelligenza superiore: ne ho visto un branco una volta, anche se in realtà ero in cerca di balene e non di delfini!
Sì perché le balene, cara Barbara, con gli orsi e i cani della mia compagna, sono i miei animali preferiti. Non so se ti è mai capitato di vedere una balena dal vero, è un’esperienza fantastica, poter uscire in mare e ammirare gli animali più grandi del creato nel loro ambiente naturale, in totale libertà, senza restrizioni, gabbie, recinti o che altro a limitarne i movimenti. Una sensazione emozionante, vedere lo sbuffo d’acqua che emettono riemergendo in superficie, prima di rituffarsi in mare sbattendo sull’acqua quelle loro enormi code.
Sai che anche le balene saltano e giocano come i delfini? Non tutte chiaramente, ma le megattere lo fanno, sono le balene che mi piacciono di più e ho avuto la fortuna di avvistarle un paio di volte, la prima da lontano, in gruppo, alle Hawaii, la seconda vicino alla costa del Massachusetts: era una sola megattera ma si era avvicinata tantissimo al battello su cui mi trovavo.
Ti dirò, Barbara, che trovo curiosa questa attrazione, da parte mia che sono un montanaro, per un animale marino. E a proposito di mare mi riallaccio alla tua considerazione sul costruire un’Arca o almeno comprare un ombrello per salvarsi dal diluvio. L’altra sera c’è stata una pioggia molto forte qui, nulla di paragonabile ad un diluvio, certo, ma era da un po’ che non vedevo piovere così forte. Veniva giù a dirotto e il primo pensiero che ho fatto riguarda il bello dell’avere un tetto sopra la testa in questi casi. Avere una casa. Ed è una fortuna, ma talvolta lo diamo talmente per scontato che finiamo per non pensarci, nemmeno quando ci imbattiamo in un cosiddetto homeless. Poi, per carità, di acqua in testa ne ho presa tanta, come tutti, che fosse per assistere ad un concerto all’aperto, o durante una gita in montagna o semplicemente tornando a casa dal lavoro in bicicletta.
Ma a proposito di lavoro devo dirti la grande novità, Barbara! Dopo che nelle ultime settimane ero riuscito a lavorare tutti i giorni, ma a porte chiuse, adesso il Museo ha riaperto il portone al pubblico. C’è stato un sacco di fermento, non è stata una riapertura facile, e questo aiuta a percepire il polso della situazione. Perché non è ancora tornato tutto ad essere come prima. Credo anzi che il concetto di “come prima” sia una cosa che dovremmo cercare di toglierci dalla testa, non perché non sia realizzabile, ma proprio perché in un certo senso trovo giusto che ci si sforzi di imparare a capire che per quanto vicini possiamo arrivare a quel concetto, il “come prima” non sarà realizzabile. Ottimisticamente e un po’ idealisticamente vorrei piuttosto immaginare un “meglio di prima”. Ma mi sto addentrando nell’ambito dell’utopia.
Meglio, Barbara, tornare alla tua lettera. Mi piace da matti la tua idea che nessun corso di laurea possa sostituire un’accurata formazione del cuore. Del sentire col cuore. Non so quanti abbiano la fortuna che abbiamo noi, di aver potuto avvantaggiarci dall’aver avuto esempi come le nostre nonne o semplicemente di chi ci ha preceduti: sarà perché spesso mi sento disilluso a riguardo. Vedendo situazioni familiari alla deriva o al limite del disastro mi sento una rarità con i modelli familiari che ho alle spalle. Forse è proprio questa la ragione dell’empatia che provo per orsi e balene, mi sento in qualche modo una specie a rischio di estinzione.
E probabilmente lo sono. Non ho figli a cui trasmettere l’esempio di famiglia da cui provengo. Ma in senso più esteso quello che posso fare è quello di continuare a raccontare. Ma mi sto ripetendo Barbara, questa cosa te l’ho già scritta nella lettera precedente. Solo che è più forte di me, questo fatto del raccontare, del non dimenticare la storia, perché la memoria non vada perduta, del tramandare per ricordare, se non per non commettere errori già fatti, almeno per provarci.
Per me è una vera ricchezza trovare qualcuno che abbia piacere di ascoltarmi, come io ascoltavo mia nonna raccontarmi le storie di famiglia così come lei le aveva imparate sentendole dalla suocera con cui era andata ad abitare, lontano dalla sua valle d’origine, dopo aver sposato mio nonno. È pazzesco come proprio grazie ai suoi racconti si siano tramandate le storie di una famiglia che non era nemmeno la sua famiglia d’origine.
E ti confesserò che alcune di queste storie a volte le racconto a certi miei amici che ne sono avidi ascoltatori; non solo, a volte le racconto anche ai visitatori del Museo, inserendole nella Storia quella con la S maiuscola, che sono più che convinto sia fatta anche dalle persone della quotidianità, le persone semplici, piuttosto che da quei potenti che più che farla la sfruttano a loro vantaggio.
Oggi al Museo non è venuto nessuno, ma noi eravamo lì, se qualcuno avesse voluto vi avrebbe trovato un po’ di storia, sia quella con la S maiuscola, sia quella più “piccola”. Ma dopo mesi di cattività coatta forse il genere umano ha bisogno di sentirsi libero come i delfini e le balene e non ha né tempo né voglia per le storie.
E allora se un “come prima” ci dovesse essere, lo vorrei con la gente disposta ad ascoltare e a ricordare il passato. Per vivere meglio il presente, Barbara.
Non ti ho chiesto come stai… ma spero bene…
A presto, buona serata e un caro saluto.
Paolo
Liebe Barbara
Da bin ich wieder.
Und wo bist du denn, dass du Delfine siehst? Die Sache macht mich richtig neugierig… ich dachte, du wärst hier, in den Bergen, so wie ich!
Wahrscheinlich bist du das auch, denn wer kann in dieser pandemischen Situation, die sich zwar etwas entspannt hat, uns aber weiterhin belastet (und zwar noch lange, wie ich fürchte), schon verreisen? Ich nehme also an, dass sich links von deinem Schreibtisch ein Foto befindet, auf dem Delfine in einem Hafen spielen. Wenn ich nach vorn schaue, sehe ich das Grab von Jimi Hendrix auf einem Foto von vor drei Jahren, das meinen brüderlichen Freund Patrick und mich in Seattle zeigt, wo wir als Rockpilger unterwegs waren.
Schön, das Bild mit den Delfinen, das sind zweifellos hochintelligente Tiere: ich habe einmal einen Schwarm gesehen, auch wenn ich eigentlich auf der Suche nach Walen und nicht nach Delfinen war!
Denn die Wale, liebe Barbara, sind gemeinsam mit den Bären und den Hunden meiner Partnerin meine Lieblingstiere. Ich weiß nicht, ob du schon einmal einen Wal in natura gesehen hast, es ist ein großartiges Erlebnis, aufs Meer hinausfahren und die größten Tiere der Schöpfung in ihrer natürlichen Umgebung bewundern zu können, völlig frei, ohne Grenzen, Käfige, Gehege oder was immer ihre Bewegungsfreiheit einschränkt. Ein aufregendes Gefühl, wenn man die Fontäne sieht, die sie beim Auftauchen ausstoßen, bevor sie wieder ins Meer tauchen und mit ihren riesigen Schwänzen auf das Wasser schlagen.
Weißt du, dass auch die Wale springen und spielen wie die Delfine? Nicht alle natürlich, die Buckelwale aber tun es, diese Wale mag ich am liebsten und ich hatte das Glück, sie ein paar Mal zu beobachten, das erste Mal aus der Ferne, in einer Gruppe, auf den Hawaii-Inseln, das zweite Mal an der Küste von Massachusetts: ein einzelner Buckelwal, der aber ganz nahe an das Boot heranschwamm, auf dem ich mich befand.
Eigentlich, liebe Barbara, finde ich dieses Hingezogensein zu einem Meerestier – für einen Bergbewohner wie mich – eigenartig. Und apropos Meer, da knüpfe ich an deine Überlegung an, eine Arche zu bauen oder zumindest einen Regenschirm zu kaufen, um sich vor der Sintflut zu retten. Letzten Abend hat es hier sehr stark geregnet, nicht vergleichbar mit einer Sintflut, sicher, doch der letzte stärkere Regen ist schon eine Weile her. Es goss in Strömen und das Erste, was mir in den Sinn kam, war, wie schön es ist, in solchen Fällen ein Dach über dem Kopf zu haben. Ein Zuhause zu haben. Das ist ein Glück, doch manchmal ist es für uns so selbstverständlich, dass wir letztendlich nicht daran denken, auch dann nicht, wenn wir einen sogenannten Homeless treffen. Nass geworden bin ich übrigens weiß Gott oft genug, wie jeder, sei es bei einem Open-Air-Konzert, auf einer Bergtour oder einfach auf dem Weg von der Arbeit nach Hause mit dem Rad.
Von der Arbeit gibt es eine große Neuheit zu vermelden, Barbara! Nachdem ich in den letzten Wochen jeden Tag arbeiten konnte, allerdings bei verschlossenen Türen, hat das Museum jetzt wieder die Tore für Besucher geöffnet. Es herrschte einige Aufregung, es war keine leichte Wiedereröffnung, und das ist hilfreich, um den Puls der Situation zu fühlen. Denn nicht alles ist wieder so, wie es vorher war. Oder vielmehr glaube ich, dass wir uns die Idee des „wie vorher“ aus dem Kopf schlagen sollten, nicht weil sie nicht realisierbar ist, sondern gerade weil ich es in einem gewissen Sinn für richtig halte, dass wir lernen müssen zu verstehen, dass ein solches „wie vorher“, so sehr wir uns dieser Vorstellung auch annähern können, nicht durchführbar ist. Mit Optimismus und ein bisschen Idealismus möchte ich mir vielmehr ein „besser als vorher“ ausmalen. Doch damit begebe ich mich in den Bereich der Utopie.
Kommen wir lieber auf deinen Brief zurück, Barbara. Deine Idee, dass kein Studium eine gründliche Herzensbildung ersetzen kann, gefällt mir wahnsinnig gut. Fühlen mit dem Herzen. Ich weiß nicht, wie viele das Glück haben, das wir haben, weil wir Nutzen daraus ziehen konnten, dass wir Vorbilder hatten wie unsere Großmütter oder einfach Menschen, die uns vorausgegangen sind: mag sein, dass ich mich diesbezüglich oft desillusioniert fühle. Wenn ich Familiensituationen ohne Ausweg oder an der Schwelle zur Katastrophe sehe, fühle ich mich mit den Familienmodellen, die ich hinter mir habe, wie ein seltenes Exemplar. Vielleicht ist gerade das der Grund für die Empathie, die ich Bären und Walen gegenüber verspüre, ich fühle mich irgendwie als eine vom Aussterben bedrohte Spezies.
Wahrscheinlich bin ich das auch. Ich habe keine Kinder, an die ich das Vorbild der Familie, aus der ich stamme, weitergeben könnte. Doch darüber hinaus kann ich Folgendes tun: fortfahren zu erzählen. Ich wiederhole mich aber, Barbara, das habe ich dir bereits im vorigen Brief geschrieben. Nur, es ist stärker als ich: erzählen, die Geschichte nicht vergessen, damit das Andenken nicht verloren geht, weitergeben, um sich zu erinnern, um nicht bereits begangene Fehler zu wiederholen, oder es wenigstens zu versuchen.
Für mich ist es eine echte Bereicherung, jemanden zu finden, der Lust hat, mir zuzuhören, so wie ich meiner Großmutter zuhörte, wenn sie mir die Familiengeschichten erzählte, die sie von ihrer Schwiegermutter erfahren hatte, zu der sie nach der Heirat mit meinem Großvater gezogen war, weit weg von ihrem Heimattal. Es ist verrückt, dass gerade dank ihrer Erzählungen die Geschichten einer Familie überliefert wurden, die nicht einmal ihre Herkunftsfamilie war.
Und ich gestehe, dass ich manche dieser Geschichten gelegentlich auch Freunden erzähle, die begierig zuhören; nicht nur, manchmal erzähle ich sie auch Museumsbesuchern, wobei ich sie in die Weltgeschichte einbette, die, und davon bin ich zutiefst überzeugt, eher von den Alltagsmenschen geschrieben wird, den einfachen Leuten, als von den Mächtigen, die sie nicht so sehr schreiben, sondern vielmehr zu ihrem eigenen Vorteil nutzen.
Heute ist niemand ins Museum gekommen, doch wir waren da. Wenn jemand gewollt hätte, wäre er dort auf ein wenig Geschichte gestoßen, sowohl Weltgeschichte als auch kleine Geschichten. Doch nach monatelangem Zwangsarrest hat die Menschheit vielleicht das Bedürfnis, sich frei zu fühlen wie die Delfine und Wale, und hat weder Zeit für noch Lust auf Geschichten.
Sollte es also ein „wie vorher“ geben, dann wünsche ich es mir mit Menschen, die bereit sind, zuzuhören und die Vergangenheit zu bewahren. Um die Gegenwart besser zu leben, Barbara.
Ich habe dich nicht gefragt, wie es dir geht… ich hoffe, es geht dir gut…
Bis bald, einen schönen Abend und einen lieben Gruß.
Paolo
übersetzt von Werner Menapace
25. Mai 2020
Lieber Paolo!
Ich schaue nach links.
Delfine spielen im Hafen, ein Regenbogen schillert farbenfroh über einer prächtigen Villa mit rosa duftendem Oleander.
Ich schaue nach rechts.
Ein zerfranster Umzugskarton mit den Utensilien des gekündigten Bürojobs, ein Foto der fünfköpfigen Familie und eine Packung Xanax obendrauf.
Ich schaue nach oben.
Gewitterwolken am Horizont. Manche verziehen, andere brauen sich gerade zusammen. Welcher Gott über den Wolken sitzt, weiß ich nicht, aber es spielt keine Rolle.
Ich schaue nach hinten.
Unsere Großeltern haben die großen Kriege erlebt.
Heute wird anders gekämpft. Aber das Leid bleibt, kein Platz für Sieger. Links die Freiheitskämpfer, rechts die Gesundheitsapostel. Dazwischen der Schützengraben. Eine Staatsgewalt, die mit vereinten Kräften nicht nur den unsichtbaren Feind erdrückt, Argumente, die wuchtig ins gegnerische Feld geschleudert werden, die Moralinkeule, die bedrohlich geschwungen wird. Die Presse entzückt, die Masse verrückt. Medialer Hype. Das Virus der Panik gefährlicher als Corona. Habgier, Missgunst und Angst der Motor einer vielbedienten Kriegsmaschinerie. Wann und wo der Blitz einschlägt, können nicht einmal Meteorologen vorhersagen. Aber dass ein Gewitter aufzieht, kann sogar ich erkennen. Einfach den Wolkenbruch abwarten? Nein – die Arche bauen, Dächer sanieren, zumindest einen Regenschirm kaufen. Und andere unterstehen lassen. So sehe ich das, mit der Gegenwart. Und mit der Zukunft.
Aber weißt du, Paolo, weil du den Aspekt der Hoffnung ansprichst – weder ein naiver Optimismus noch eine apokalyptische Weltuntergangsprophezeiung werden etwas nützen, doch der Glaube an die Möglichkeit des Guten im Menschen und ja, vielleicht sogar an einen wie auch immer genannten Gott jenseits unserer Berge, können den Blick und unsere Handlungen auf etwas Größeres, Transzendentales hin ausrichten, das in unserer immer kleiner gewordenen Welt oft so schmerzlich fehlt. Woran unsere Gesellschaft erkrankt? Nicht nur an Corona, und das schon seit Längerem. Welchem Gott wir dienen wollen? Gesundheit als neue Götze, pfui Teufel. Wir glauben doch wohl nicht ernsthaft, ein funktionierender Körper sei unser höchstes Gut. In dieser Hinsicht dürfen wir Menschen wohl getrost größer von uns denken. Und besser. Damit wir dann auch eher größere und bessere Handlungen von uns selbst abverlangen. Unsere Großmütter haben es uns vorgemacht. Es ist schön, wie du über deine Oma schreibst. Meine hat mich auf mannigfaltige Weise inspiriert, ihr weiser Geist und ihr großes Herz wirken hinein in meine Gegenwart. Kein Studium ersetzt eine gründliche Herzensbildung, kein Titel ist Garant für Wohlwollen oder zumindest Anstand. Ein Wort, das aus der Mode gekommen ist wie das Konzept, das es umschreibt.
Aber genug – es berührt mich, was du über das Erzählen berichtest, und diese Gabe lese ich aus jeder Zeile deines Briefes heraus. Mein Blick schweift auf die vielen bedruckten und beschriebenen Blätter vor mir. Poesien, Erzählungen, wissenschaftliche Texte, Tagebücher, To-do-Listen. Was Schreiben für mich bedeutet? Beschreiben, aufschreiben, umschreiben, verschreiben, anschreiben, ausschreiben, neuschreiben, gegenschreiben, wi(e)derschreiben, entschreiben.
Doch weißt du was? Seit ich das Wort „Hawaii“ gelesen habe, kann ich an nichts anderes als an Urlaub denken. Grüne Palmen, weißer Sandstrand und ein blaues Meer, das sich in einem noch viel blaueren Himmel spiegelt. Kein Wölkchen in der Luft, alle Gedanken und Sorgen wie weggeblasen. Eine kleine Alltagsflucht an die Quelle der Inspiration, ein Moment der Stille und der Einkehr, nur das gleichmäßige Atmen der Wellen, die schäumend an das Ufer rollen. Ich wünsche mir gerade in Zeiten wie diesen mehr Abstand vom Alltagsstress, vom Grübeln, vom Virus. Corona muss wieder aus unseren Köpfen verbannt werden, es tut uns nicht gut. Vergessen sollen wir es lernen, einfach vergessen, und da wirst du jetzt vielleicht lachen oder empört aufschreien, und das verstehe ich, aber sind es nicht gerade auch unsere vielzitierten Berge, die uns vom Gipfel aus, der Distanz wegen, die Dinge im Tal kleiner und klarer sehen lassen und unsere Perspektive wieder etwas zurechtrücken?
Ach, ich sollte mir neue Wanderschuhe kaufen. Und trainieren. Es ist anstrengend, eine Bergspitze zu erklimmen, aber dauerhaft viel beschwerlicher, den Anstieg nicht einmal zu versuchen. Natürlich, hinter jedem Berg ein neues Tal, das wissen wir Südtiroler, und doch stählt jede Besteigung unsere Muskeln für das Überwinden des neuen Massivs, das sich hinter der nächsten Biegung vor unseren Augen präsentiert. Und dann wieder Sandalen, Hängematte und ein Stapel guter Bücher am Strand. Gebirge und Meer, Tag und Nacht, Sonne und Mond. Irgendwo zwischen Mundschutz, Lippenstift und einer gemeinsam am Lagerfeuer geteilten Flasche Wein liegt wohl das Reich der Zukunft, in dem ich auch gern ein Stückchen Land bewohnen möchte. Mit Blumen in den Gärten, sauberem Wasser für alle und genug Brot und einem herzlichen Empfang für jeden neu ankommenden Gast.
Wieder muss ich an meine Großmutter denken, die trotz der vielen Entbehrungen weder verbittert noch selbstmitleidig wurde, sondern tatkräftig Herz und Haus für verwaiste Kinder und Notleidende öffnete und ein Leben lang demütig und würdevoll ihren Dienst am Nächsten verrichtete. Und dabei sogar die Fähigkeit besaß, voller Zuversicht in die Zukunft zu blicken, und, was wohl nur ganz wenigen von uns gelingt, die Gegenwart zu genießen. Ein wunderschönes Erbe, das sie mir hinterlässt, und für welches ich sehr dankbar bin.
Lieber Paolo, ich freue mich, wieder von dir zu hören.
Herzliche Grüße,
Barbara
18. Mai 2020
Liebe Barbara!
Die Schlussworte deines Briefes haben mir das Lied eines texanischen Rockmusikers in Erinnerung gerufen, den ich sehr mag: wir blicken auf dieselben Sterne, sein Kontext war ein anderer, der Kern aber bleibt der gleiche, und wir blicken auf dieselben Berge. Und so haben wir, obwohl wir uns nicht kennen, schon etwas, das uns verbindet, außer dem Schreiben natürlich, der Ausgangsbasis dieses Briefwechsels.
Über die Sterne weiß ich wenig, die Berge aber liebe ich, ich liebe sie mit der Hassliebe, die man letztlich oft für jene Dinge empfindet, die uns am meisten berühren, ich betrachte sie gern, doch ich hasse die Kälte, ich stehe gern oben, doch ich hasse es, vom Aufstieg Knieschmerzen zu bekommen. So sind wir eben, wir Menschen: im Verlauf von Jahrtausenden herausgebildete Merkmale und Probleme, und mittlerweile ändert uns keiner mehr.
Mir gefallen die Gipfel, ich wandere aber auch gern im Flachland (wahrscheinlich eben wegen der besagten Kniebeschwerden), ich mag die Wälder, die Lichtungen, die Luft, die man atmet, den Duft dieser Luft, den Unterholzgeruch. Früher bin ich wirklich viel gewandert, musst du wissen. Wenn ich dir jetzt aber sagen müsste, welches mein Lieblingsberg ist, nun, da bringst du mich ein wenig in Verlegenheit. Nicht so sehr, weil ich keinen habe, sondern weil es in etwa so ist wie beim berühmten Buch, das man auf die einsame Insel mitnimmt. Es hängt davon ab, wann man dich danach fragt, von deiner momentanen Gemütsverfassung, glaube ich, nicht jeden Tag würde man letztendlich den gleichen Titel nennen und dann, seien wir ehrlich, ein einziges Buch für die einsame Insel ist doch etwas wenig.
Im Augenblick empfinde ich, dass es mit den Bergen in etwa genauso ist. Ich könnte dir den Mauna Kea nennen, einen sehr hohen Vulkan auf den Hawaii-Inseln, ich war noch nie oben, habe ihn von unten gesehen, er befindet sich aber auf einer Insel, die mir sehr gefällt und auf die ich mich in der Fantasie zurückziehe, wenn mich das Fernweh überkommt. John Steinbeck, mein Lieblingsautor, meinte, der eine reise, um Bücher zu schreiben, der andere schreibe Bücher, um im Kopf zu reisen, ich habe mich immer ein bisschen zwischendrin gefühlt.
Um auf die Berge zurückzukommen, ich könnte auch sagen, die im Passeiertal, von wo mir ein wunderschönes fünftägiges Trekking dauerhaft in Erinnerung bleibt, oder der Becco di Filadonna, ein niedriger Gipfel im Trentino mit atemberaubendem Ausblick. Wahrscheinlicher ist jedoch, dass ich die Dolomiten sage, unsere Hausberge, die ich von meiner Stadt aus sehe, den Rosengarten, der mit seinem Profil mein Bozen Town beherrscht. Es ist der Berg, den ich täglich auf meinem Weg zur Arbeit ins Museum sehe und den ich den Museumsbesuchern zeige, wenn ich sie auf die Turmspitze führe und ihnen Geschichten erzähle, die mit den Bergen, die wir sehen, zu tun haben, denn darauf verstehe ich mich im Grunde am besten: erzählen. Worüber schreibst du denn gewöhnlich, Barbara?
Erzählen ist die Essenz meines Lebens, um welche Art von Erzählung es auch immer gehen mag, das habe ich von meiner Mutter und meiner Großmutter geerbt, das ist alles in den Genen, im Reinzustand. Wichtig ist, jemanden zu finden, der bereit ist, dir zuzuhören, sich selbst zu erzählen, ist hart. Ich denke an meine Großmutter und frage mich, was sie von dieser ganzen Geschichte mit der Pandemie gehalten hätte, sie, die zwei Weltkriege und die famose Spanische Grippe mitgemacht hat … Obwohl sie jetzt weit über hundert Jahre alt wäre, und in Anbetracht der Erziehung, die sie genossen hat, glaube ich, dass sie sie nicht als Strafe Gottes angesehen hätte. Sie war eine aufgeklärte Frau.
Auch wenn die christliche Religion den Leuten zu viele Jahrhunderte lang von einem strafenden, strengen und schrecklichen Gott erzählt hat. In gewisser Weise ein bisschen das Gegenteil jener olympischen Götter, von denen du mir in deinem Brief schreibst: die waren im Vergleich dazu Operettengötter, wenn man so sagen kann, zu unsäglichen Bosheiten fähig, gewiss, doch voller Fehler: Neidhammel, unverbesserliche Sünder und Gauner, genau wie die Menschen, die sie sich so ausgedacht hatten, nach ihrem Ebenbild. Ganz das Gegenteil vom Gott der Christen. Und von dem der anderen Monotheisten.
Ich bin drauf und dran, mich auf ein Minenfeld zu begeben, und verlasse es schnell wieder, bevor ich mich darin festfahre. Worauf ich hinauswollte, ist jener Punkt in deinem Brief, an dem du auf die Desertifikation und auf den Klimawandel zu sprechen kommst, ein Thema, das uns allen nahegeht, eines der vielen, gegenüber dem ich mich gleichzeitig ohnmächtig und schuldig fühle: ohnmächtig, weil ich nicht sehe, was meine getrennte Müllsammlung nützt (die ich auf jeden Fall weiterhin praktiziere), während in den Ozeanen ganze Plastikatolle entstehen; schuldig, weil ich mir vollkommen bewusst bin, dass der Verzicht auf so viele unverzichtbare Bequemlichkeiten unserer Tage der Umwelt helfen könnte.
Was mich an diesem Virus-Notstand beeindruckt hat, ist die Feststellung, dass die Zwangsklausur, zumindest in der ersten Phase, zu einer zeitweiligen Entvölkerung der besiedelten Räume geführt hat, und ich beziehe mich genau auf unsere Alpenräume: mit den gezwungenermaßen zu Hause eingeschlossenen Menschen ist es in einigen Dörfern des Trentino dazu gekommen, dass sich Wildtiere (Bären und Steinböcke) bewohnten bzw. unbewohnten Gebieten näherten und sogar auf Balkone kletterten. Ich kann mir nicht helfen, aber ich denke, das ist eine Folge der Quarantäne. Was meinst du?
Eher als eine Strafe scheint mir das eine Warnung von Mutter Natur zu sein, die zu Recht darüber erbost ist, wie wir mit ihr umgehen.
Manche glauben, dass das Schlimmste schon vorbei ist. Weißt du, Barbara? Ich bin mir da nicht so sicher. Die Kriege, die unsere Großeltern und Eltern erlebt haben, waren zweifellos schlimmer, doch ich traue mich nicht, einen Schlussstrich unter dieses unerwartete Ereignis zu ziehen, gegen das es noch kein Gegenmittel gibt. Ich versuche, optimistisch zu sein, doch die Aussicht erscheint mir düster und bedrohlich. Ich versetze mich in die Lage jemandes, der, so wie du, kleine Kinder hat, ich denke, es ist eine moralische Pflicht, auf eine unbeschwerte Zukunft zu hoffen, für sie zumindest. Andererseits wird, wie du geschrieben hast, der versprengte Samen von heute zur Blume von morgen gedeihen und, wenn ich mich in diesem verrückten, beispiellosen Frühling so umschaue, sehe ich die Natur erblühen, diesem unserem Menschengeschlecht mit seinen Fehlern und Mängeln zum Trotz.
Und mit diesem positiven Befund (nicht in Bezug auf das Virus!) wünsche ich dir einen schönen Abend, bis bald,
aloha, wie man im Schatten des Mauna Kea sagt
Paolo
übersetzt von Werner Menapace
Cara Barbara!
Le ultime parole della tua lettera mi hanno portato alla mente una canzone di un rocker texano a me molto caro: vediamo le stesse stelle, il suo contesto era diverso ma il succo resta il medesimo, e vediamo le stesse montagne. E quindi, pur non conoscendoci, abbiamo già qualcosa che ci accomuna, oltre la scrittura naturalmente, che è il fondamento su cui si basa questo epistolario.
Di stelle so poco, ma amo le montagne, le amo di quell’amore/odio che spesso si finisce per provare per le cose che ci toccano maggiormente, amo guardarle ma odio il freddo, amo starci sopra ma odio il fatto di aver male alle ginocchia per poterci salire. Siamo fatti così noi esseri umani: caratteri e problematiche forgiati nell’arco di millenni e ormai non ci cambia più nessuno.
Mi piacciono le cime ma mi piace anche camminare in piano (probabilmente proprio per quel male alle ginocchia di cui ti dicevo), e mi piacciono i boschi, le radure, l’aria che si respira, il profumo di quell’aria, gli odori del sottobosco. Una volta camminavo davvero tanto sai? Però da qui a saperti dire quale sia la mia montagna preferita, beh, mi metti un po’ in crisi. Non tanto perché non ne abbia una, ma perché credo sia un po’ come il famoso libro da portare su un’isola deserta.Dipende da quando te lo chiedono, dal tuo stato interiore del momento credo, non tutti i giorni si finirebbe col dire lo stesso titolo, e poi diciamocelo, un libro solo per l’isola deserta è un po’ poco.
In questo momento sento che è un po’ la stessa cosa con le montagne. Ti potrei dire il Mauna Kea, un vulcano altissimo delle Hawaii, non ci sono mai stato sopra, l’ho visto da sotto, ma si trova su un’isola che mi piace molto e dove mi rifugio con la fantasia quando sento la nostalgia del viaggiare. John Steinbeck, il mio autore preferito, diceva che qualcuno viaggia per scrivere libri, qualcun altro scrive per viaggiare con la fantasia, io mi sono sempre sentito un po’ nel mezzo.
Ma tornando alle montagne, potrei dire anche quelle della Val Passiria, dove ho il ricordo permanente di un bellissimo trekking di cinque giorni, o il Becco di Filadonna, una piccola cima trentina con un panorama mozzafiato. Più prevedibilmente dirò invece le Dolomiti, le montagne di casa, quelle che vedo dalla mia città, il Catinaccio col suo profilo che domina la mia Bozen Town. È la montagna che vedo tutti i giorni recandomi al museo per lavorare, ed è quella che mostro ai visitatori del museo quando li accompagno in cima alla torre, raccontando loro qualche storia legata alle montagne che vediamo, perché questa è la cosa che mi viene meglio in fondo: raccontare. Tu di cosa scrivi di solito, Barbara?
Raccontare è l’essenza della mia vita, di qualunque tipo di racconto si tratti, l’ho ereditato da mia mamma e da mia nonna, è tutto nel DNA, allo stato puro. L’importante è trovare qualcuno disposto ad ascoltarti, altrimenti è dura a raccontarsela da soli. Penso a mia nonna e mi chiedo cosa avrebbe pensato di tutta questa storia della pandemia, lei che aveva visto due guerre mondiali e la famosa epidemia spagnola… Nonostante ora avrebbe molto più di cent’anni e considerata l’educazione che aveva ricevuto, credo che non l’avrebbe considerata un castigo divino. Era una donna illuminata.
Anche se la religione cristiana per troppi secoli ha raccontato alla gente di un dio punitore, severo e temibile. Per certi versi un po’ l’opposto di quegli dei dell’Olimpo di cui mi scrivi nella tua lettera:
quelli a confronto erano divinità da operetta, se così possiamo dire, capaci di cattiverie indicibili, certo, ma pieni di difetti: invidiosi, peccatori incalliti e cialtroni proprio come quegli uomini che se li erano inventati così, a propria immagine e somiglianza. Tutto l’opposto del dio dei cristiani. E di quello degli altri monoteisti.
Mi sto addentrando in un territorio minato, e ne esco prontamente prima d’impantanarmi. Quello a cui volevo arrivare era il punto della tua lettera in cui fai riferimento alla desertificazione e ai cambiamenti climatici, un tema che ci tocca tutti da vicino, uno dei tanti nei cui confronti mi sento al tempo stesso impotente e colpevole: impotente perché non vedo a che serva la mia raccolta differenziata dei rifiuti (che continuo a fare comunque) nel momento in cui vediamo crearsi interi atolli di plastica negli oceani; colpevole in quanto sono pienamente consapevole che rinunciare a tante irrinunciabili comodità dei nostri tempi potrebbe essere d’aiuto all’ambiente.
Una cosa che mi ha colpito di questa emergenza virale è stato vedere come la clausura coatta abbia portato, almeno nella prima fase, ad un temporaneo spopolamento delle zone antropizzate, e mi riferisco proprio alle nostre zone alpine: con la gente chiusa in casa forzatamente, in un paio di paesi del Trentino ci sono stati casi di animali selvatici (orsi e stambecchi) che si sono avvicinati ai centri abitati/disabitati fino al punto di entrarvi arrampicandosi sui balconi. Non riesco a non pensare che sia un effetto della quarantena. Ti pare?
Più che un castigo, mi viene da pensare ad un ammonimento da parte di madre natura, a buon diritto arrabbiata per come la trattiamo.
Qualcuno pensa che ormai il peggio sia passato. Sai Barbara? Io non riesco ad averne la certezza. Le guerre viste dai miei nonni e dai miei genitori sono state sicuramente peggio, ma non me la sento di mettere la parola fine su quest’esperienza inattesa e ancora senza rimedio. Provo ad essere ottimista, ma l’orizzonte mi pare fosco e minaccioso. Mi metto nei panni di chi come te ha bimbi piccoli, immagino che sia un dovere morale sperare in un futuro sereno, per loro almeno. D’altra parte, come scrivevi, i semi sparsi oggi fanno crescere i fiori di domani e, guardandomi attorno in questa pazza primavera senza precedenti, vedo la natura andare avanti, alla faccia di questa nostra difettosa razza umana.
E su questa dichiarazione di positività (non al virus!), ti auguro una buona serata, a presto, aloha, come si dice all’ombra del Mauna Kea
Paolo
15. Mai 2020
Lieber Paolo!
Es ist Abend und ich blicke ein letztes Mal aus dem Fenster, bevor ich die Jalousien schließe. Vor mir ragt die Zielspitze in den schwarzen Himmel, nebelverhangen, wie der Olymp, auf dessen Gipfel die Götter hausen, im Verborgenen. Die Zielspitze ist mein absoluter Lieblingsberg. Ich war aber noch nie oben. Hast du einen Lieblingsberg, Paolo?
Wo die Götter hin sind, frage ich mich. Ob sie auch husten und röcheln, oder ob sie im Schatten ihrer Unantastbarkeit ihrem ewigen Leben frönen, fernab von jeglichem menschlichen Leid und Sterben, im Glanze der Unendlichkeit. Langweilig eigentlich, nicht wahr, aber faszinierend erhaben in einem Sumpf kurzlebiger Geschöpfe und deren Erzeugnisse. Häuser auf Sand, manchmal nur Marmor, aber die Desertifikation schreitet gerade in Zeiten wie diesen unerhört voran, vielleicht auch der Klimawandel dran schuld. Ob der geistige Schrott der dunklen Materie gleicht, die die Sterne am Himmel erst zusammenleimt? Der Schein heller Ideen wirkt lang, aber wir wissen heute, dass ihr Licht oft erst die Weltbühne erreicht, wenn der Himmelskörper dahinter schon lang erloschen. Und dann ist es manchmal zu spät. Nur noch bunter Sternenstaub, der sich tröstlich auf das matte Grab legt. Nebel eben, wie er die Zielspitze heute großzügig umbauscht. Nicht ein Lichtstrahl ringt sich durch zu uns. Dabei hatte mich die letzten Wochen hinweg immer wieder ein helles Leuchten rechts des Gipfels fasziniert, nicht der Sirius, vielleicht die Venus oder der Merkur. Sie sollen sich ja momentan auf derselben Höhe befinden, von hier unten aus gesehen. Dabei ziehen die beiden Planeten ihre Kreise auf völlig verschiedenen Umlaufbahnen. Aber hier für das ungeschulte Auge zum Verwechseln ähnlich. Tückisch. Doch ich kenne mich mit Astronomie nicht aus. Manchmal betrachte ich die Flut der Informationen und Gegeninformationen und weiß nicht, auf welcher Seite ich der Sonne näher bin. Kennst du dieses Gefühl, Paolo? Ich spüre dann nur dieses wachsende Unbehagen und dieses vereinnahmende Bedürfnis, es in Worte zu fassen, zu artikulieren, ja hinauszuschreien in eine abgestumpfte Welt, die sich schon längst an alles und viel mehr gewöhnt hat und mühselig ihren Ballast Umdrehung für Umdrehung mit sich wälzt. Doch dann ertappe ich das Rotieren meiner Gedanken, die sich ebenso beschwerlich im Kreise drehen und vergeblich plagen, im Hamsterrad der genormten Scheinwirklichkeit mehr als nur die Denkmühle selbst zu bewegen. Und schließlich erkenne ich, dass mir schlecht wird von diesem ständigen Purzelbaumschlagen und ich mache einfach nicht mehr mit, aber der Schädel schwirrt noch immer, und die Welt scheint abwechselnd kopfzustehen. So falle und erhebe ich mich, taumle und stehe, irre und erringe ich, den Blick fest auf den geliebten Gipfel gerichtet, besser noch auf das Himmelslicht daneben, so fern unddoch so nah, auf der Suche nach einer Wahrheit, die es gibt, nicht in tausend Scherben, zersprungen im Fall, sondern rein und rund wie die gläsernen Murmeln der Götter, die sich damit im Schatten der Wattewolken die Zeit vertreiben. Ob sie herabblicken und lachen, frage ich mich, angesichts des rührseligen Auslotens unserer viel zu straff gezogenen Grenzen. Mauern und Zäune, jetzt wieder maschinengewehrbewacht. Aber was nützen mir das Spielen des Zeus, der Hera und deren Kinder, während unsere auf Leistung getriggert in einer nicht nur seit Corona viel zu beengten Welt hergetrieben werden vor dem kategorischen Imperativ eines perversen Wirtschaftssystems, dessen Höher-Schneller-Weiter in keinem Maße mit einem ethischen, geistigen, sozialen oder emotionalen Fortschritt zu korrelieren vermag. Ich jedenfalls wünsche mir keine Vergeltung jenseits des Olymps, sondern ein bisschen mehr Himmelreich auf Erden. Es ist zum Greifen nah. Außerhalb des eigenen Kosmos Ich, einen Schritt vom Du und eine Armlänge vom Wir entfernt. Hier fängt die Freiheit an, ein wirklich dauerhaftes Licht an dem Himmel zu entzünden, auf den wir alle und auch zukünftige Generationen aufblicken werden, klagend, weinend, verzweifelt und lachend, dankend, hoffnungsfroh.
Die Nacht ist sehr dunkel und kalt, ungewöhnlich kalt für diese Jahreszeit. Der Mensch braucht wieder Wärme und Nähe in dieser pseudokontaktreichen Gesellschaft, deren Losigkeiten sich schon längst in die Herzen der Menschen gefressen haben. Freudlos, kontaktlos, hoffnungslos, energielos, ziellos, mutlos, ruhelos, interessenlos, tabulos, schamlos, wertelos. Virale Verbreitung. Unbemerkt und tödlich. Corona als Symptom einer krankenden Gemeinschaft. Leiber gehen zugrunde, Seelen auch – das war des Dramas erster Akt. Regisseure besprechen sich, passende Akteure werden gecastet, das Publikum ist erstarrt vor Schreck. Aber einzelne Stimmen erheben sich, der Chor wird immer lauter, ich mittendrin.
Es ist schon spät, wahrscheinlich ist der Mond schon aufgegangen, nur sehen kann ich ihn nicht. Jede Krise birgt auch Chancen, herrschende Missstände können behoben und ein Neuanfang gewagt werden. Die Herausstellung der Würde, ein dem Menschen wirklich gemäßes Leben, eine humanere Welt – das sind keine Träumereien zu schläfriger Nachtzeit, das ist vielmehr das Gebot der Stunde für uns alle. Gedanken, Ideen, Visionen führen zu Handlungen und konkreten Ergebnissen im Hier und Jetzt, auf dessen Boden der versprengte Samen von heute zur Blume von morgen gedeihen wird.
Nun grüße ich dich herzlich, lieber Paolo, und freue mich darauf, von deiner Gedanken- und Lebenswelt zu erfahren. Ich kenne dich nicht – aber wir blicken auf dieselben Sterne und dieselben Berge, das fühlt sich vertraut an.
Liebe Grüße,
Barbara
Cara Roberta. ist ein Kooperationsprojekt von Literaturhaus Liechtenstein, Literaturhaus & Bibliothek Wyborada, dem SAAV und literatur.ist.